Kis, Danilo - Giardino, cenere

estersable88

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Profumo di vaniglia e semi di papavero, un vassoio nichelato con sottili mezzelune lasciate dal fondo dei bicchieri, piccoli tram azzurri, gialli e verdi che si rincorrono tintinnando, il cancello di un parco dietro il quale spuntano cervi e cerve, «come ragazzini di buona famiglia di ritorno dalla lezione di piano». All’inizio di questo romanzo c’è un pullulare di sensazioni, una nube tattile, olfattiva, onirica, che si sposta in una cauta esplorazione del mondo, come l’occhio del bambino Andreas, il narratore. La parola «morte» trafigge questa nube, è un numero fatale stampato sul buio. E il bambino gioca con il sonno, gli tende agguati, in preparazione alla grande lotta con la morte. Aveva deciso di «assistere un giorno consapevolmente alla venuta della morte e così vincerla», e nell’attesa voleva sorprendere l’angelo del sonno.
Intorno ad Andreas, vediamo la sorella Anna, che piange la sera perché il giorno è finito e non torna più; e la madre Marija, seduta davanti a una imponente macchina da cucire Singer di ghisa nera. E soprattutto vediamo, seppure soltanto in apparizioni imprevedibili e balzane, il padre Eduard Sam, ispettore delle ferrovie a riposo, ma in realtà trickster decaduto, che non dispone più di molti poteri, eppure è ancora aureolato di eventi prodigiosi e irrisori. Autore di un Orario delle comunicazioni tranviarie, navali, ferroviarie e aeree che, arricchendosi di edizione in edizione, si trasforma in opera interminabile, come una mappa che volesse coincidere con il territorio rappresentato, Eduard usa mostrarsi con bombetta e redingote imbrattata, e sfida l’iniquità del mondo dietro occhiali con montatura metallica, stringendo in pugno un bastone. Compreso della sua vocazione di mistificatore, non è mai se stesso, ma il nebbioso ricordo di qualcos’altro, e il giovane Andreas, fantasticatore selvaggio, percepisce in lui la compresenza di molte vite: «Ed eccolo, mio padre, seduto nel carro accanto a una giovane zingara dalle poppe rigonfie, maestoso come il principe di Galles o, se volete, come un croupier o come un maître d’hôtel (come un illusionista, come un impresario di circo, come un domatore di leoni, come una spia, come un antropologo, come un maggiordomo, come un contrabbandiere, come un missionario quacchero, come un sovrano che viaggi in incognito, come un ispettore scolastico, come un medico di campagna e, infine, come un commesso viaggiatore, rappresentante di una compagnia occidentale per la vendita dei rasoi di sicurezza)». Un giorno, in un raro momento di sobrietà, Eduard accenna al figlio il suo segreto: «Non è possibile, giovanotto mio, e questo ricordatelo per sempre, non è possibile recitare la parte della vittima per tutta la vita senza diventarlo alla fine davvero». La storia si incaricherà presto di avverare la profezia.
In una continua osmosi di sensazione e visione, questo romanzo raggiunge una precisione evocativa che penetra nelle fibre della mente, in un modo che ricorda Bruno Schulz. Qui, come una splendida carovana di stracci e paccottiglia, ci sfila davanti il mondo saturo di esperienze dell’Europa centrale mentre sta per abbandonarsi alla morte, visto con gli occhi del bambino sognatore e ribelle che alla morte voleva dare scacco.

Beh, dopo cotanta quarta di copertina, mi sono approcciata a questo romanzo con aspettative alte. Mi aspettavo di trovare una scrittura lussureggiante, ricca, evocativa come quelle che piacciono a me… il problema è che, mea culpa, non avevo pensato alla trama… o alla sua mancanza. E purtroppo, per me la trama è importantissima: i libri lirici, ma fatti di pensieri scomposti, flussi di coscienza, trame solo vagamente abbozzate non fanno per me… sono forse troppo alti, troppo aulici per i miei gusti o le mie capacità. Ho bisogno di ancorarmi a qualcosa di concreto, una struttura delineata, un profilo, una contestualizzazione spaziotemporale, dei personaggi di cui scoprire l'evoluzione… Ecco perché non sono riuscita ad apprezzare questo romanzo di Danilo Kis. Perché in queste pagine pure dense di immagini memorabili, quasi tutto ciò che a me piace trovare in un libro manca. Non è assolutamente un libro brutto, anzi ne riconosco il valore letterario… è solo un libro che non fa per me, perciò se pensate che abbia caratteristiche che invece voi gradite, allora sì che ve lo consiglio.
 

MonicaSo

Well-known member
Giardino, Cenere, insieme a Clessidra e Dolori precoci, fa parte d’una trilogia che evoca l’infanzia dell’autore.
In esso, infatti, si riassumono tutte le tematiche trattate negli altri due libri: il senso della morte che, causa le persecuzioni razziali, s’insinua nello spirito incontaminato d’un bimbo, il valore della memoria, l’accorato ricordo della figura paterna.
È proprio su questo padre perduto, scomparso nell’orrore, che Giardino, Cenere si sofferma in maniera particolare.



Danilo Kiš parla di se stesso: è lui il piccolo Andreas Sam, ossessionato dal pensiero della morte; descrive le sue emozioni di bambino così come le ha provate, senza aggiungere ulteriori riflessioni.
Ciò di cui parla più di tutto è il padre: Eduard Sam, scrittore fallito e poi predicatore, che appare come un'esagerata caricatura di sé stesso.
Esagerato nel voler scrivere un'opera monumentale: L’orario delle comunicazioni tramviarie, navali, ferroviarie e aeree (che nessuno vuole pubblicare); esagerato nei suoi viaggi che diventano sempre più lunghi e misteriosi; esagerato nei suoi rapporti con gli altri e la famiglia, da cui teme addirittura di poter essere avvelenato.
L'ultimo viaggio del padre, quello verso il campo di sterminio, viene invece quasi solo accennato e comunque raccontato come un viaggio frutto di pazzia, su un carro di zingari pieno di masserizie... unico indizio: il pigiama a righe che la madre mette in valigia.
Il bambino Andreas però continua ad aspettare questo padre, immagina di vederlo tornare dal suo viaggio lunghissimo e spera di incontrarlo e potergli parlare... e nel frattempo diventa adulto e anche lui scrittore.
Molto bello lo stile di Kis, che non conoscevo; si perde un po' in descrizioni minuziosissime (ma bellissime)... ma forse è questo che rende il suo linguaggio quasi poetico?
Unica nota, per me, non positiva: il non seguire una linea temporale ben precisa (più evidente a fine libro), una scelta stilistica che mi crea sempre un po' di confusione.
 
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