Questo romanzo, per molti versi, si presenta come un’opera “tipica” di Simenon. Fin dalle prime pagine veniamo immersi in un’atmosfera che, per chiunque abbia letto qualche suo libro, risulta familiare: un’atmosfera di decadenza, esteriore ma soprattutto interiore. Per questo termine il dizionario riporta la seguente definizione: “progressiva diminuzione di vitalità e di efficienza”, e credo che non ci siano parole migliori per descrivere la condizione del protagonista, un uomo appartenente a una famiglia in vista (il padre aveva addirittura ricoperto il ruolo di sindaco) e benestante; lui stesso è un avvocato e vive con la figlia ventenne Nicole in una bella casa. Ma diciotto anni prima la moglie di Loursat, questo è il suo nome, lo ha abbandonato per un altro uomo. Da quel momento Loursat si spegne lentamente, da quel momento si erge una barriera fra lui e “loro”, dove "loro" è il resto del mondo, figlia compresa.
Il romanzo si apre dunque su questa situazione desolante: l’uomo è indifferente a tutto e tutti, persino a se stesso, e trascina la propria vita solitaria e dipendente dall’alcol fino al giorno in cui un evento inaspettato, un omicidio avvenuto all’interno della sua abitazione, non lo costringe a svegliarsi e a guardarsi attorno, rendendosi finalmente conto di ciò che lo circonda.
Solo superficialmente, quindi, Gli intrusi potrebbe essere etichettato come un giallo; la verità è che, in tutti i romanzi di Simenon (Maigret compresi), al centro vi è sempre un dramma umano, che in questo caso è quello di Loursat, ma anche quello di Èmile, il giovanotto innamorato di Nicole e accusato dell’omicidio. Se è vero, infatti, che il processo sarà l’occasione di un riavvicinamento con la figlia, è vero anche che un legame istintivo, sotterraneo, si instaura fra l’avvocato e l’imputato da lui difeso. Nel suo orgoglio, nella sua disperazione, nel suo cieco amore per Nicole, Loursat ritrova un po’ se stesso prima che le delusioni della vita lo prostrassero, ed è grazie a questa “riscoperta” che riuscirà a riprendere in mano la propria vita.
"Loursat lo invidiava. Non tanto per i suoi diciott' anni, quanto per essere capace di una disperazione cosi totale, e per il fatto di starsene lì, come travolto da un'improvvisa vertigine, con il mondo che gli turbinava intorno, sua madre che piangeva per lui, Nicole che era là ad aspettarlo e non lo avrebbe mai abbandonato, e perfino la Nana che per lui aveva fatto un'eccezione al suo amore esclusivo per Nicole. C'era qualcuno che lo amava! Senza riserve! Di un amore assoluto! Avrebbero potuto tartassarlo, condannarlo, giustiziarlo, ma ci sarebbero sempre state tre donne pronte a credere in lui!"
"Così, per inseguirli, si mette perlustrare la città... Scopre persone, odori, suonı, negozi, luci, sentimenti. Tutto un magma, un brulichio, una vita che non ha niente in comune con quella delle tragedie: rapporti assurdi, indefinibili, tra le persone e le cose, idioti affascinanti, correnti d'aria agli angoli delle strade, un passante che indugia, un negozio rimasto aperto chissà perché, e un ragazzo che aspetta nervosamente sotto un grande orologio noto all'intera città un compagno schiuderà le porte dell'avvenire..."
L’aspetto davvero interessante è che Loursat, che continua a non riconoscersi nei suoi coetanei, ai suoi occhi ipocriti e meschini, riesce invece a comprendere l’avventatezza della gioventù, i suoi piccoli drammi, le sconfitte, le battaglie. Per assurdo, quindi, la situazione presentata all'inizio si rovescia: chi è davvero indifferente? Chi è che si ostina a tenere gli occhi chiusi ignorando la verità?
"I genitori, intanto, facevano finta di essere vivi, arredavano sfarzosamente le loro case, si preoccupavano delle uniformi dei domestici, del tipo di cocktail da offrire, della buona riuscita di un pranzo o di un bridge... Marthe parlava sempre di suo figlio, ma poteva forse dire di conoscerlo? Neanche per sogno! Non più di quanto lui conoscesse Nicole!"
Un tema fondamentale di questo romanzo, infatti, non è solo il risollevarsi di un uomo che sembrava perduto, quanto l’implicita condanna di tutti quelli che non sono mai caduti, ma che nemmeno hanno “vissuto”.
"Non erano altro che imbecilli! Tutti! Dei poveri esseri umani che non sapevano neanche cosa ci stavano a fare al mondo, che andavano avanti alla cieca, come buoi attaccati al giogo, a volte con un sonaglio al collo!"
Un libro di grande finezza psicologica ed emotiva, come da sempre ci ha abituati questo autore, e che mostra, allo stesso tempo, l’estrema fragilità dell’uomo e la sua capacità di rialzare la testa nonostante tutto: i limiti possono anche essere opportunità di crescita.