SOUND - Jeopardy

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SOUND - Jeopardy (Korova) 1980

La storia del rock è costellata di gloriosi fallimenti, di "beautiful loser" cui solo il tempo, alla fine, ha reso giustizia. Quello dei Sound è uno dei casi più emblematici e tragicamente beffardi al tempo stesso. Perché Adrian Borland, anima del gruppo, se n'è andato proprio un attimo prima che la loro musica conoscesse una imprevedibile "seconda vita", resuscitando nelle corde di tante band contemporanee (dagli Interpol in poi), al punto da risultare oggi persino più "moderna" di quella di tanti mostri sacri dell'era post-punk. Se ne è accorta in tempo la meritoria Renascent, che, all'inizio del decennio 2000, ha ristampato quasi l'intera discografia della formazione inglese.

Si potrà discutere a lungo sulle ragioni di un insuccesso che, con gli occhi di oggi, appare inconcepibile, tanto più una terra come la Gran Bretagna che ha sempre saputo valorizzare i suoi frutti. Forse, i Sound erano troppo poliedrici in un’epoca che richiedeva etichette: non più punk ortodossi, non abbastanza gotici per il popolo dark, non così psichedelici da essere iscritti al circolo dei concittadini Julian Cope e Echo & The Bunnymen. Forse, più semplicemente, mancava loro un "personaggio" all'altezza delle dark-star del momento. Borland, infatti, non era né un frontman dal magnetismo nevrotico di Ian Curtis, né una maschera teatrale alla Peter Murphy, né un interprete dal fervore stregonesco di una Siouxsie Sioux. Era solo un (ottimo) cantante "normale", in un'epoca in cui look ad effetto e trasformismo dettavano legge. Certo, stupisce che ancora oggi ci sia chi li dimentica completamente (persino Simon Reynolds, nella sua bibbia "Post-punk"), ma, si sa, la storia è fatta anche di tanti misteriosi "omissis".

Il chitarrista e cantante Adrian Borland debutta nel 1977 con una band punk, gli Outsiders, che si autoproduce l'album "Calling On Youth". Quindi, una prima line-up dei futuri Sound dà alle stampe un Ep e diversi singoli nel 1979, attirando le attenzioni della indie-label Korova. La formazione si assesta in un quartetto: oltre a Borland, ci sono Graham Green Bailey (basso), Mike Dudley (batteria), Bi Marshall (tastiere).

Sotto la sigla The Sound - che nella sua semplicità dice già tutto - esce così l'album d'esordio, "Jeopardy" (1980). Assurto oggi a totem wave, all’epoca fu un mezzo flop, al punto che i quattro cominciarono fin da allora a subire le pressioni dei discografici volte a rendere la loro musica più accessibile. Ma in realtà qualcuno aveva già visto più lontano. Come il critico Steve Sutherland, che dalle colonne del Melody Maker affermò che "Jeopardy" aveva "più spirito, anima e sincerità di qualsiasi altro disco uscito in quell’anno". E non era un anno qualsiasi...

Registrato a basso costo, con una produzione scarna e minimalista, "Jeopardy" trasuda adrenalina punk nei suoi pungenti riff chitarristici ma la sposa a uno spleen struggente e desolato - il canto fatalista di Borland, le tastiere stranianti, la tetra sezione ritmica - forgiando quel tipico suono darkwave che dominerà la scena britannica degli anni 80.
L'incipit di "I Can't Escape Myself" semina il panico col minimo degli orpelli: una cupa sezione ritmica e sparute vibrazioni di synth à-la Neu introducono la litania di Borland; poi l’esplosione improvvisa, con le chitarre distorte che decollano all’unisono con la batteria. Ma è solo una fiammata, perché proprio quando sembra deflagrare, la canzone si tronca subito, come se davvero non ci fosse una via d’uscita. Nel testo e nella musica, c’è già tutta l’essenza dei Sound: la visceralità disperata, la consapevolezza di una esistenza asfittica e senza scampo. Anche l’iniezione di anfetamina della successiva "Heartland" è un’illusione artificiale: una forsennata corsa punk tra fasci abbaglianti di synth, con un assolo centrale di chitarra in odor di Verlaine.
L’enfasi epica è quella degli U2 prima maniera, ma il mood è quello paranoico della più nobile tradizione wave. Così anche il ritornello apparentemente radioso della title track cozza con un’ambientazione malata, dove i synth sibilano maligni e le corde sferragliano in lontananza.

Tutto il disco si dibatte tra scatti nevrastenici e stadi di raggelante desolazione. A reggere il gioco, un basso ossessivo, sordido, gommoso, capace di agitare il fantasma curtisiano di "Hour Of Need" tra vorticose ragnatele di chitarre e muraglie di synth, di lanciare al galoppo sfibranti rock’n’roll ("Heyday", "Resistance") o di squassare dal profondo quella particolarissima love-song di nome "Words Fail Me", dove compare un inedito sax ad abbozzare un brandello di melodia.

Altrove si penetra nelle stanze oscure del dark: "Night Versus Day" è una liturgia ipnotica da tempio dell’amore dei Sisters Of Mercy, "Unwritten Law" si snoda su un minaccioso mid-tempo, con riff laceranti di chitarra a fendere dense coltri di synth, mentre la conclusiva "Desire" è una morbosa declamazione alla Bauhaus, spogliata però da ogni eccesso teatrale e lasciata alla deriva in un lento crescendo degli strumenti, che entrano a uno a uno, sorretti dal solito basso.
L'idealismo puro, quasi naif, di Borland si sublima nell’inno antimilitarista di "Missiles", commovente nel suo disperato crescendo, con voli radenti di chitarre in feedback e spaventose tastiere a mimare quasi i sibili degli aerei da guerra. "Chi diavolo fa questi missili?" è una imprecazione che può far sorridere anche nel 1980, in piena Guerra Fredda, ma immersa in quel suono fa correre i brividi lungo la schiena.

I Sound non indulgono in pose da dandy annoiati, da Pierrot tristi o da reduci sballati del Rocky Horror Picture Show: sparano fendenti dritti in faccia all’ascoltatore, senza compromessi. Prendere o lasciare. E in molti, purtroppo, lasceranno. Anche Adrian Borland, schiacciato dagli insuccessi artistici e dalla sua personale sconfitta, si arrenderà, e nel modo più atroce: gettandosi sotto un treno in corsa sui binari della Wimbledon Station, il 26 aprile 1999.
Chissà se tra i tanti più o meno consapevoli cloni, qualcuno si ricorderà di quel ragazzo dall’aria stravolta che gridava al vento "non posso fuggire da me stesso".

(Recensione tratta da http://www.ondarock.it/pietremiliari/sound_jeopardy.htm)
 

saetia

kollaps!
il giro che apre possession è uno dei piu' bei giri di basso della new wave.. e poi silent air.. new dark age.. grandissimissimi...adrian borland era un grande..
 

Apart

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Stupendo, erano anni che non lo ascoltavo, oggi sono ritornato a farlo. Ombroso, con un sound irresistibile, un disco bellissimo che ha avuto poco successo, sconosciuto ai più. Uno dei dischi più belli della dark wave!
 
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