Tornati a casa gli Hubermann scesero subito in cantina, ma Max sembrava non esserci più. La lanterna aveva una fiammella bassa e arancione, e non riuscivano né a vederlo né a sentirlo.
"Max?"
"E' sparito."
"Max, sei qui?"
"Sono qui."
Sulle prime credettero che le parole provenissero da dietro i teloni e le latte di pittura, ma Liesel fu la prima a scorgerlo, proprio davanti a loro. Il suo viso stremato si confondeva tra i teloni e gli attrezzi da imbianchino. Sedeva con gli occhi attoniti.
Quando si avvicinarono, parlò nuovamente.
"Non ho potuto farne a meno", disse.
Fu Rosa a replicare, chinandosi su di lui: "Di che cosa parli, Max?"
"Io..." lottò per rispondere, "quando s'è fatto tutto silenzio, sono salito in corridoio, e in camera di Liesel c'era una fessura tra le tende...Potevo vedere fuori. Ho sbirciato, ma solo per pochi secondi." Erano ventidue mesi che non vedeva il mondo esterno.
Nessuno lo rimproverò.
Papà disse: "Com'era là fuori?"
Max sollevò il capo, con un'espressione stupita. "C'erano le stelle", disse. "Mi hanno bruciato gli occhi."
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Quando arrivò il grosso, il rumore dei loro piedi si rovesciò sulla strada. Avevano occhi enormi nelle teste emaciate. E la sporcizia. Una sporcizia impressa su di loro. Le loro gambe vacillavano come sospinte dalle mani dei soldati, costrette a correre avanti per pochi passi prima di tornare ad accasciarsi in una marcia stentata. Hans li guardava al di sopra delle teste della folla assiepata. Sono certa che i suoi occhi erano argentei e tesi. Liesel osservava nei varchi tra una persona e l'altra, oppure al di là delle spalle. I volti sofferenti di uomini e donne stremati si volgevano verso di loro, supplicando non tanto aiuto - ormai erano al di là di ogni possibilità di aiuto - ma una spiegazione, qualcosa che riducesse tanto smarrimento. A stento i loro piedi si sollevavano da terra. Avevano stelle di Davide appiccicate sulle camicie, e la sciagura impressa su di loro come un destino: "Non dimenticate la vostra disgrazia..." In qualche caso gli cresceva addosso, come un tralcio di vite. Al loro fianco camminavano i soldati, ordinando di sbrigarsi e piantarla con i piagnistei. Alcuni non erano che dei ragazzi, con il Fuhrer negli occhi. Mentre assisteva a tutto ciò, Liesel non dubitava che fossero le anime più sventurate di questo mondo; per questo scrisse di loro. Le loro facce sparute erano contorte, tormentate. Si trascinavano avanti divorati dalla fame, alcuni fissando il suolo per evitare la gente sul ciglio della strada; altri guardavano imploranti chi era venuto ad assistere alla loro umiliazione, preludio della loro morte. Altri ancora pregavano che qualcuno, chiunque, facesse un passo avanti e li prendesse fra le braccia. Nessuno lo fece. Che si guardasse la sfilata con orgoglio, insolenza o vergogna, non uno si fece avanti per interromperla. Non ancora. Di tanto in tanto un uomo o una donna - no, non erano uomini e donne, erano ebrei - scorgeva in mezzo alla folla il volto di Liesel. Le veniva incontro la loro sciagura, e la ladra di libri non poteva fare altro che guardarli per un lung, disperato momento prima che passassero oltre. Poteva soltanto augurarsi che sapessero leggere quanto profonda era la pena dipinta sul suo viso, comprendere che era vera, non superficiale. Io tengo uno di voi in cantina! avrebbe voluto dire. Abbiamo costruito insieme un pupazzo di neve! Gli ho fatto tredici regali quand'era malato! Liesel non diceva nulla. A che sarebbe servito?
"La bambina che salvava i libri" - Markus Zusak