Quando penso a Virginia Woolf, una delle prime cose che mi vengono in mente è quell'incredibile contrasto, quell'irriducibile tensione fra il profondissimo e annientante dolore e la brillantezza tagliente della sua ironia. Virginia Woolf è conflitto, è luce abbagliante e contagiosa e tenebra profonda, e il conflitto in lei è stato così profondo e indissolubile da portare a Rodmell e al 1941. Se però questo conflitto è stato così profondo da impedirle di risolverlo nella sua vita, non è stato così nelle sue opere; "Orlando" è forse l'esempio più concreto di questa compresenza e risoluzione di spiriti ed istinti tanto diversi, e non c'è da stupirsi che ciò avvenga in maniera così evidente nell'opera che parla di nature diverse, di scomposizione del sé e di identità. Ed è straordinario sapere che prorpio l'opera più lieve, più giocosa e luminosa di questa immensa donna è nata prorpio in uno dei momenti più bui della sua esistenza: "Ieri mattina ero disperata, non riuscivo a spremere una parola, alla fine mi sono presa la testa tra le mani, ho intinto la penna nell'inchiostro, e ho scritto queste parole quasi meccanicamente, sul foglio bianco: Orlando. Una biografia. Appena fatto questo, il mio corpo è stato invaso dall'estasi, la mia mente da idee...".
In questo romanzo sono presenti tanti dei temi portanti della poetica di Virginia Woolf (l'identità, la sperimentazione, il flusso di coscienza, e soprattutto lo scorrere del tempo), ma lo sono in una maniera del tutto unica e peculiare. C'è una vena brillante ed ironica terribilmente forte, una vena tagliente e piena di vitalità, presente sin dalle prime righe: "Egli - poiché dubbio non v'era sul suo sesso..." e già Virginia sorride e strizza l'occhio al lettore, perché già sa dove lo condurrà, attraverso caleidoscopici vortici di colori, sensazioni, situazioni surreali e al tempo stesso tremendamente allegoriche. I toni sono quelli di un poema cavalleresco, ma Orlando tutto è tranne che una figura bidimensionale che incarna un ruolo predefinito e vagamente stereotipato. O forse lo è, a tratti, ma solo per permettere a Virginia di dare sfogo alla sua vena più sarcastica, per poter criticare usanze e costumi, convenzioni sociali e stigmatizzazioni. "Orlando" è un arazzo coloratissimo, confusionario a volte, difficile da cogliere altre, ricchissimo di dettagli spesso puramente estetici, solo dei vezzi, ma che nel complesso formano un'immagine imponente e perturbante.
La sensibilità di Virginia Woolf, l'attenzione a tematiche quali la condizione femminile, la concezione del femminile (e, di rimando, del maschile) sono straordinarie. Nel 1928 una donna sviscerava tutta l'ipocrisia e la cecità di chi dipinge preconcetti di genere, ci chi costruisce personalità ed attitudini su meri attributi biologici, mostrando con il mezzo più semplice e diretto - il sorriso - quanto tutto ciò sia opprimente e riduttivo, quanto tutto ciò appiattisca l'immensità e la complessità di un animo umano (un animo umano, non un animo maschile o femminile). Nel 1928 Orlando poteva essere uomo e risvegliarsi donna, e non mutare di una virgola nella sostanza del suo animo - o mutare radicalmente, o chiamare l'immensità dei suoi io senza ottenere risposta, ma non certo per via di abiti maschili e femminili, perché la complessità della questione dell'identità non può e non deve in alcun modo essere ridotta ad una questione di genere. Nel 2015, l'anno delle censure nelle biblioteche delle scuole dell'infanzia, la voce di Virginia Woolf sembra essersi persa in un deserto che terrorizza, il deserto di chi non vuole nemmeno provare ad ascoltare e rendere giustizia alla complessità di determinati temi.
In "Orlando" ci sono paragrafi densi di una satira così sottile e brillante verso la critica letteraria da far sorridere anche quasi cent'anni dopo, segno che Virginia Woolf era una voce limpida e terribilmente acuta, ma anche che gli uomini sono esseri incapaci di imparare dal passato (eh, già, è sempre meglio venerare il passato e disprezzare per partito preso la contemporaneità, o tempora, o mores!). C'è una critica feroce e incredibilmente acuta alle ipocrisie e alle costruzioni della società, di una qualsiasi società, sempre capace solo di costruire maschere e porre distanze fra gli individui, e mai di promuovere genuinità.
E poi, in fondo, a tenere uniti tutti i fili smaglianti e appariscenti di questo arazzo, c'è la Virginia Woolf che ho amato ne "Le onde", quella tormentata e intrinsecamente legata alla sua scrittura, quella che vive d'inchiostro e di poesia in prosa, quella che ci regala quaranta sublimi pagine nel finale che valgono in tutto e per tutto la fatica di alcuni capitoli centrali a volte non del tutto scorrevoli o accattivanti.
È un'autrice a cui ci si deve arrendere ed abbandonare, sapendo che la lettura non sarà immediata né d'intrattenimento (o meglio, non solo); si deve accettare senza pretendere una razionalità eccessiva, si devono accettare le sue regole e le sue forzature, perché le opere di Virginia Woolf non sono costruzioni coerenti e "altre", ma sono l'intimità più profonda di una donna luminosa ma estremamente tormentata.