Era da talmente tanto tempo che volevo leggere questo libro che davvero non sapevo bene cosa aspettarmi, tanto più che si trattava del mio primo Auster.
Dirò subito che non sono rimasta pienamente soddisfatta o, per meglio dire, non sono stata “conquistata”, come a volte mi succede, e questo è dovuto in parte alla natura del libro (non amo particolarmente i racconti), in parte alla scelta dell’autore di lasciare troppe porte aperte, troppi riferimenti irrisolti, troppi stimoli che rischiano di restare fini a se stessi.
Mi ero ripromessa, a lettura ultimata, di riflettere con più attenzione per cercare di cogliere quel “filo rosso” che attraversa la trilogia e che indubbiamente è di grandissimo interesse, perchè riguarda l’identità, le relazioni tra individui, la scoperta del significato della propria vita attraverso il rapporto con l’altro. Non so se ci sono riuscita, ma l’impressione che ho avuto è che, a differenza di alcuni romanzi letti recentemente in cui il tema dominante è l’incomunicabilità, Auster invece vuole far risaltare proprio il contrario: siamo soli fin quando non ci confrontiamo con l’altro, siamo ciechi verso noi stessi fin quando, “costretti” a posare il nostro sguardo su un altro individuo, ci ritroviamo specchiati in questo sguardo.
Ben due storie su tre hanno per protagonisti dei detective, professionisti o “improvvisati”, quasi a suggerirci che la scelta di uscire da noi stessi per concentrarci su qualcun altro non deve essere necessariamente spontanea, basta che avvenga.
In Città di vetro la situazione è paradossale perchè il protagonista, uno scrittore discretamente famoso, confuso con un altro personaggio di nome Paul Auster, si ritrova suo malgrado a indossare i panni dell’investigatore privato. Noi lettori ammicchiamo allo scherzo dell’autore che cita se stesso e assistiamo alla delusione del protagonista quando, ritrovandoselo in “carne ed ossa”, scopre che non si tratta di un investigatore, ma, appunto, di uno scrittore. Un altro tema di questo primo racconto, richiamato poi in quello successivo (ma i rimandi fra l’uno e l’altro sono voluti e numerosi) è il tema della parola, in particolare del linguaggio originale dell’innocenza, quando fra significato e significante non esisteva alcuna separazione: nel Paradiso terrestre l’essenza delle cose è il loro nome, i nomi rappresentano l’essenza delle cose.
In Fantasmi, forse il racconto che mi è piaciuto di più, il tema dell’identità sfocia in quello del doppio. L’uomo che spia si scopre spiato, l’uomo che pensava di avere in mano la propria vita si rende conto che non è libero di essere se stesso, almeno fino al momento in cui accetterà di confrontarsi col suo “doppio”.
E il doppio torna prepotentemente anche nell’ultimo racconto, quello che più di ogni altro (nonostante la brevità) assomiglia a una storia con un senso compiuto.
In La stanza chiusa, il protagonista prende addirittura il posto di un suo ex amico d’infanzia, al quale per gran parte della sua vita era talmente legato, da rendere difficile definire i limiti delle reciproche identità. Questo rapporto di ammirazione/invidia, identità/alterità, amore/odio non potrà che portare a conseguenze estreme.
Tutto molto interessante, ma il punto è: cosa vuole arrivare a dirci l’autore? Stimolanti i temi, divertenti i rimandi, accattivanti i giochi di parole e di senso... ma se tutto resta fine a se stesso non basta. I finali devo dire che li ho trovati abbastanza deludenti: non è facile “chiudere” delle storie dopo aver messo tanta carne e al fuoco e, appunto, li ho trovati troppo irrisolti.
Comunque penso che in qualche modo Auster abbia voluto farci riflettere su questo: in un’epoca frenetica e distratta come la nostra, non abbiamo tempo per concentrarci davvero su noi stessi e perciò perdiamo la coscienza di ciò che siamo realmente. Da qui il “distacco” fra ruolo pubblico e individuo, fra “nome” e “identità”. Penso che il sogno di uno dei personaggi di Città di vetro di riscoprire il linguaggio puro del Paradiso perduto indichi proprio questo: colmare quel vuoto che si è andato a creare fra noi stessi e ciò che significhiamo.
Apro una piccolissima parentesi per citare un altro bellissimo tema collegato a questo senso del distacco e della perdita ed è il tema del “vagare”, del “camminare senza una meta”. Ma non in un posto qualsiasi... a New York, alla quale l’intero libro è dedicato: “New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sè. (...) New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai più.”
In ogni caso, sembra che l’autore voglia suggerirci che, se vogliamo ritrovare noi stessi, l’unica strada possibile sia mettersi nei panni dell’altro. Il senso di un uomo non si fonda sull’individualità, bensì sulla reciprocità.
Se si tratta solo di una suggestione letteraria sinceramente non saprei dirlo: dovrei leggere altro di questo autore per poter iniziare a capire la sua poetica, cosa che sicuramente farò. Perchè è indubbio che questo messaggio, anche se solo abbozzato, mi ha colpito e affascinato.