Caparco, Enrichetta - Tracce Invisibili di Universi Paralleli

Enriquez

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il viaggio continua, ma restiamo a Torino.

Il viaggio continua amici miei, siamo di nuovo a Torino, al Caffè Fiorio . No, non nel cono temporale remoto, non c’ è Camillo Benso conte di Cavour che ha appena acceso iun sigaro, ma Carlotta Campo che chiede consiglio a Giovanna Passanti, la sua migliore amica, e ci troviamo nel cono temporale Principe.

Da” Tracce invisibili di universi paralleli”

Fiorio conservava gelosamente, oltre alla ricetta segreta del gelato al gianduia, l’arredo retro dei suoi saloni.
Anche quel giorno – ed era là che le due amiche erano di¬rette – nella sala rossa, il loro tavolino era libero. Giò vi posò le Marlboro light e aspettò che l’amica sedesse per chiedere: «Insomma, ti ha scritto Marek. È così che si chiama, vero?».
Carlotta annuì, poi alzò le spalle: «Sì. E non solo gli ho ri¬sposto, gli ho mandato anche altro». (…)
Carlotta guardò i vetri a cattedrale dell’ingresso sulla via Bo¬gino. Chissà perché entravano tutti da via Po! E fu quel pen¬siero che non c’entrava per nulla con il suo problema a darle la forza di affermare: «Il fatto è che sto pensando di andare a Londra».
«Cosa!?». (…)
Fiorio, ad un tratto, era affollato. (…)
Le signore della Torino chic, figure deliziose in via di estin¬zione, sedevano sparse qua e là, in piccoli gruppi. Ornate con gioielli antichi, li portavano su camicette bianche di picchè o di organza, stirate in modo perfetto. Qualcuna ancora azzardava il cappello.
 

Enriquez

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cono temporale principe 1993 Londra

E adesso amici restiamo sempre nel cono temporale principe. E’ 5 dicembre del 1993, ma siamo a Londra. Da “Tracce invisibili di Universi Paralleli”.

Enrico Cardinale non decollava quasi mai dallo stesso ae¬roporto per scendere a Londra, prendeva sempre un volo di linea. Di solito utilizzava la navetta fino alla Victoria Station e poi si spostava in metropolitana. Ma questa volta, a causa di una perturbazione, era parecchio in ritardo e aveva più baga¬glio del solito. Senza contare che portava con sé del contante: meglio un taxi.
Era sulla vettura quando selezionò il numero del cellulare di Paolo. “Accidenti, ha inserito la segreteria!”. Detestava parlare in inglese e sospirò, prima di chiamare la Worthy House. Gli rispose una voce maschile: «I’m sorry, but he is not in». Il ragazzo non c’era.
«Già, “il ragazzo”», ripeté ironico.
Oltre i finestrini appannati il fianco di Palace Westminster si impose, lo sovrastò e lo lasciò di nuovo. Il taxi costeggiò il Victoria Tower Garden e superò New Scotland Yard. Fu all’altezza di St James Park che Enrico sentì stridere i coperto¬ni sull’asfalto e, subito dopo, il rumore della collisione. Chino in avanti, stava trafficando nella tasca laterale della sua borsa, affondò col capo nella scocca imbottita del sedile anteriore: “Che ca... spita succede adesso?”.
L’autista sospirò un breve «I’m sorry», prima di spalancare di mala grazia la portiera, scendere e infilare veloce una seque¬la di vocaboli. Enrico non li comprese, ma avrebbe giurato che, in quell’inglese strano, ci fossero almeno tre imprecazio¬ni. Era il bus che aveva tagliato la strada al taxi o il contrario? Con la guida a sinistra della carreggiata, lui si confondeva re¬golarmente. Intravide l’autista del bus, un energumeno con un vistoso tatuaggio sull’avambraccio, intrecciare i suoi sproloqui con il taxi driver: “Ci manca una rissa adesso, e poi dicono che gli inglesi sono compassati”. (…)
Scendeva sempre al Portobello Hotel di Notting Hill, a due passi dall’omonimo mercato delle pulci: svago irresistibile per i turisti. Ma Enrico non era un turista, non a Londra, non quell’anno; un pensiero molesto gli fece sollevare e abbassare visibilmente la cassa toracica.
«It’s ok», disse nel lasciare il resto al guidatore, ma la sua enfasi gli fece pensare che forse aveva esagerato con il surplus della corsa: lo disturbava passare per il solito italiano spoc¬chioso.
Il suo trolley ora stava sul carrello – non ricordava che glielo avessero preso – insieme all’inconfondibile borsa gialla con la scritta Nikon Nital: non ci sarebbe stato tempo per le foto¬grafie.
L’interno 124, chiedeva sempre quello, era una piccola suite sul giardino dell’hotel dove l’insegna di un ottimo ristoran¬te occhieggiava tra l’onnipresente verde londinese. Di solito cenava lì con Paolo, come quella sera, o almeno lo sperava. Doveva firmargli una delega, sempre che gli riuscisse di con¬vincerlo. Ma certe decisioni sulla compagnia non potevano più aspettare; e lo riguardavano, eccome se lo riguardavano.
Un lift in livrea sistemò il bagaglio e attese in silenzio. Quan¬do Enrico gli fece scivolare in mano la mancia, ringraziò defe¬rente e si chiuse la porta alle spalle.
Riconobbe le pareti chiare e il sentore di polvere e lavanda lasciati un mese prima. Aprì tutte le finestre ma le richiuse su¬bito: aveva freddo. Si tolse le scarpe per lasciarsi cadere sul let¬to ampio, invitante con il suo piumino d’oca: stanco, si sentiva stanco. Fissò, senza vederla, la graziosa testata in ferro battuto e lo sguardo salì al soffitto, illuminato da lampade celate da una cornice bianca in cartongesso; troppa luce! Si affrettò a spegnerla. Non serviva a niente rimanere sdraiato sul letto, ora che l’irrequietezza aveva superato il livello di guardia! Tor¬nò a cercare le scarpe, si alzò e accese la tv; dalla BBC un gra¬
zioso volto di donna gli augurò un cordiale “good morning”. Staccò, togliendole la parola con stizza, la stessa suscitata dalla voce che gli negava il fratello un’ora prima: “Che ce l’abbia coi londinesi?” pensò nell’entrare in bagno. Orinò seduto sul water; faceva sempre così quando era depresso. Un ampio specchio doppiava i rilievi finto marmo delle pareti e i lava¬bi in tinta; un tronchetto della felicità gigantesco ombreggiva inutilmente la brocca smaltata e il set di spazzole in bella mo¬stra su un tavolo stile liberty.
Decise che si sarebbe fatto la barba e aprì un paio di cassetti per trovare un rasoio usa e getta.
Il dopobarba diffondeva il suo aroma nella stanza da bagno, mentre Enrico scrutava i tratti regolari responsabili del suo sguardo corrucciato. Erano giorni che troppe domande senza risposta gli martellavano la fronte. Premette con i polpastrelli i bulbi oculari. “Che male alla testa!”. Avrebbe chiesto un’aspi¬rina. Tra un minuto però, prima doveva pianificare la giornata. (…)

«Has my brother shown up?», aveva chiesto entrando in al¬bergo.
Il portiere gli aveva risposto in italiano: «Non fino ad ora signore». Eppure si erano sentiti al telefono prima del volo! In verità non aveva detto: “Arrivo, aspettami”, ma era ovvio, che diamine!
Provò di nuovo. Non rispondeva o non c’era campo?
Ma che stupido! Quel mattino suo fratello era alla Royal Academy Music! Glielo aveva scritto, ricordava perfino la fra¬se: “Devo andarci perché sabato, alle 10:00, suona una mia amica”.
Era ancora lontano, quando lo vide uscire dal palazzo dalla facciata in mattoni rossi: la Royal Academy Music.
Reggeva un violoncello, avrebbe detto Enrico. Vestiva ca¬sual, come al solito, mentre la ragazza grassottella che gli stava accanto era in lungo: un matinée dunque.
Quando lo riconobbe alzò il braccio libero per un saluto e cedette rapido lo strumento all’amica; la baciò su entrambe le guance: «See you tomorrow Marnie». (…)
Percorsero Park Lane, il grande viale tra Hyde Park e il quar¬
tiere di My Fair, e giunsero alla rotonda di Marble Arch senza che nemmeno una parola indicasse che stavano insieme. La passeggiata, lenta come un corteo funebre, a tratti si faceva veloce, quasi che Paolo fuggisse ed Enrico lo rincorresse; ma a quest’ultimo, quella deambulazione pareva un delirio.
Girovagarono ancora senza meta, per fermarsi stanchi al cancello di una residenza signorile.

(…).
Al laghetto si erano fermati di nuovo.
«A Hippolyte Taine, Regent’s Park è parso un quartiere ro¬mito», disse Enrico.
«Lo credo bene», gli rispose il fratello, «son più di centono¬vanta ettari di prato».
“Evviva, mi risponde!”. Enrico si guardò bene dal cambiare argomento.
«Se non sbaglio, alcune parti le hanno completamente rifatte».
«Mi stai dicendo che il parco non è più quello ideato per Giorgio IV, è questo che intendi?».

7 dicembre 1993, sulla metropolitana
Aveva cenato al ristorante con suo fratello e, adesso, sta¬va seduto sul metrò da solo. Contava di arrivare alla Worthy House presto, avrebbe fatto il giro per andare in camera: non intendeva passare davanti al caminetto, perché era proprio in quell’angolo del salone che i clienti scambiavano quattro chiacchiere dopo cena. Non voleva vedere che se stesso, pro¬prio così: sarebbe andato diritto a guardarsi allo specchio. Era alquanto curioso quel desiderio, se ne rendeva conto, ma ugualmente non vedeva l’ora di appagarlo. Si sarebbe seduto davanti alla sua immagine, esattamente come stava ora, e sa¬rebbe rimasto a guardarla per un po’. Non davanti al cassetto¬ne con lo specchio, che non gli riprendeva tutta la figura, ma al paravento che si apriva a fisarmonica: da una parte le cor¬nici trattenevano tesa una finitura in stoffa, dall’altra ciascuna anta era uno specchio.
La prima volta che aveva visto la camera, la White s’era scusata del paravento così come delle imperfezioni nel muro. L’ospite che c’era prima, un arredatore – così aveva detto ma¬dame – non se l’era portato via perché valeva poco: non più di venti sterline. Quell’arredo era parte delle sue frivolezze; pare che fosse uno dell’altra sponda. Quest’ultimo dettaglio la donna fingeva di non conoscerlo. Aveva sottolineato invece
quanto quel mobile fosse comodo: «Separa l’ambiente notte da quello del giorno», proprio così aveva detto.
“Separa il letto dalla scrivania, questa è la verità” aveva pen¬sato lui.
Prima di specchiarsi, però, si sarebbe cambiato. Avrebbe in¬dossato quello che portava quando, fresco fresco, dall’Italia aveva messo piede per la prima volta nella Worthy House: un paio di Lewis e una felpa blu marine, t-shirt a piacere natu¬ralmente.
In genere non amava gli specchi e – anche quel pensiero ultimamente aveva cercato di cancellarlo in tutti i modi – li evitava come qualcosa di pericoloso.
La vettura del metrò diede uno scossone e la cartelletta che stava sulle sue ginocchia, tutta roba che gli aveva lasciato En¬rico, cadde aprendosi.
 

Enriquez

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Cari amici, anche oggi l’argomento è ancora il viaggio e vi chiedo: si può viaggiare senza muoversi? Io credo di si. E’ quello che faremo insieme visitando Genova. Così come ce la presentano le differenti tessere del grande quadro.

Da “Tracce invisibili di Universi paralleli”.

Nel luogo che trascende tempo e spazio, dove tutto ha un senso compiuto, le navi dei Cardinale sono sempre pronte a salpare per i Caraibi, il Centro America, Dubai, altrove. Il quadro si accende nel grattacielo più alto di Genova, quar¬tier generale delle imprese dei Cardinale, navi e olio prima di tutto, dove si susseguono gli episodi della lunga vicenda che tiene ben saldi i principi di una dottrina economica perfetta quanto immutabile, che prevede la rovina delle società pronte a calpestare le leggi del mercato.

Il passato remoto della Cardinale Armatori
Popolazioni di differente etnia vennero gettate sulle coste alte del Tirreno per frode o per fortuna. Gente deposta sul litorale dalle guerre, dalle tempeste o dalla pirateria; oppure profughi che valicavano le Alpi per sfuggire alle epidemie, alla fame e ad altre calamità vissute in terre lontane. Soldati, mari¬nai, nomadi, profughi o predatori, dipendeva dal caso, finiva¬no col rimanere in pianta stabile in Liguria, regione avara ma ridente. Coltivavano l’ulivo dove grilli e cicale abitavano già da millenni e il profumo era inebriante come il vino. Riposavano sulle fresche terrazze che guardavano il mare, quel mare che sembrava volerli proteggere e invece era aperto e infido come una terra di confine.
Tanti furono coloro che cercarono di far propria quella stri¬scia di terra rocciosa, aggrappata all’Appennino a ridosso del Tirreno: normanni, saraceni, greci, portoghesi, spagnoli... al¬tri. Famiglie che si legavano in unioni dove lo scambio delle donne significava pace. Gente che nel figliare e seppellire i morti imparava a dialogare con la natura sparagnina del luogo.
Gente tenace che giorno dopo giorno lavorava la terra con fatica.84
Fu con l’onda ispanica che giunsero in Liguria i Cardinale e sarebbero bastate poche generazioni per farli crescere di nu¬mero e costituire un clan. Grande famiglia i Cardinale: aveva¬no tanto ingegno da costruire una cattedrale nel deserto, anzi di più, sarebbero riusciti ad armare una nave nel bel mezzo dell’oceano.
Esagerazioni a parte e al di là della leggenda, una cosa grande i Cardinale la fecero: trovarono la soluzione a un triplice pro¬blema, attraverso una pianificazione aziendale ante litteram.
Non di rado, nelle favole, i rebus sottoposti agli eroi, quel¬li che la cultura popolare raccoglie dalla realtà, nascono da esercizi di vita. E così, come nelle fiabe, ai Cardinale per vivere occorreva la soluzione di tre quesiti differenti. Primo quesito: il luogo per la spremitura delle olive doveva essere vicino al punto della grande raccolta stagionale, ma, soprattutto, non lontano dal mare. Scelsero Genova per costruirvi il luogo per trasformare un liquido denso e aspro in olio commestibile; quel luogo divenne la loro prima manifattura. Secondo quesi¬to: l’olio occorreva venderlo, e per poterlo vendere si doveva trasportare, ovvero riempire la stiva di un’imbarcazione con tanto di otri e, perlomeno all’inizio, navigare lungo la costa. Sennò a cosa serviva il mare? Iniziò allora quell’attività che, secoli dopo, avrebbe preso il nome di “Cardinale containers”. Terzo quesito: per il trasporto dell’olio diveniva necessario costruire e armare le imbarcazioni.
I Cardinale, giunti sulla costa italiana dal mare – proveniva¬no da terre di mare, e pertanto erano disposti geneticamente alla navigazione – poco sapevano sulla costruzione dei natan¬ti. Fu allora che appresero l’arte armatoriale. Non avrebbero mai più lasciato Genova, se non per tornarvi. Sarebbe stato sempre là il presidio del clan e sempre là avrebbero fissato il proprio quartier generale.

20 gennaio 1971: Genova, intervista all’armatore
Perché era toccato a lui quel compito, l’inviato del «Cor¬riere» proprio non lo sapeva. Certo non era dato a tutti di 85
intervistare “Giacomo la leggenda”, “la vecchia roccia”, “il cardinale”... tanti erano i suoi soprannomi.
Baffi folti e abito grigio, gli apparve solo. Un patriarca: trecentomila tonnellate di navi e seicento nipoti. Ed eccolo sorridere, un semplice gesto della mano per indicargli dove sedere, perentorio come al solito. Si poteva definire regale o monastico? Forse né l’una, né l’atra cosa. O entrambe? Perché i Cardinale facevano matrimoni di interesse intrecciando i pa¬trimoni con le dinastie, ma erano anche frugali, sobri, devoti, essenziali come frati appunto.
A portare a Genova l’inviato del «Corriere della Sera», a far¬lo salire di trenta piani sul grattacielo più alto della città, era stata una bomba: la notizia del trasferimento delle navi della Cardinale Armatori da Genova a Napoli.
 

Enriquez

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Cari amici il mio romanzo in fondo vuole rappresentare un viaggio. E a poco a poco scopriremo insieme perchè.

La storia che racconto è una delle tante il cui disegno, ― senso ― va letto nelle tracce lasciate dai cambiamenti.
E’ la rappresentazione fantastica di un percorso. Percorso che vede le stazioni aprirsi, una dopo l’altra come scatole cinesi, sin che il gioco si compie.
E’ la navigazione attraverso vicende di mondi separati che soltanto le tracce rendono accessibili.
E’ un segno, un segmento senza inizio né fine, dal momento che in questa realtà il verso delle cose non esiste e nemmeno la freccia del tempo. Le date dunque sono soltanto cifre: coordinate di postazione del mezzo ― un grande database? ― dove l’infinita moltitudine del cosmo trova la sua memoria. Memoria che un misterioso lettore concretizza in immagini, suoni, voci, parole, talvolta simboli.

Da “Tracce invisibili di universi paralleli”

Nel cono temporale principe una tessera del grande quadro si apre su Carlotta che percorre spedita le vie del centro storico di Torino, con la busta dal timbro di Londra nella tasca ante¬riore dei jeans griffati. Ogni tanto la cerca con le dita. Quella lettera è un premio, una lusinga; anche se in realtà chi le scrive non è Paolo Cardinale, ma qualcuno che dice di esserne il figlio.
Marek Kreen, dunque, compare così, all’improvviso, dal nulla.
Ora lei è davanti a Palazzo Guarini e guarda il monumento come se lo vedesse per la prima volta. “Una rara espressio¬ne del Barocco ondulato”, avrebbe detto il suo professore di Storia dell’arte. Carlotta Campo è architetto, dirige un centro di ricerca sull’habitat; ha un piglio da manager e l’aria grintosa della donna in carriera, ma sa bene che si tratta soltanto di apparenza e sente ancora in sé tutte le ragazze che è stata.
Un’altra tessera lampeggia e sul suo sfondo compare la col¬lina di Torino. Sono passate soltanto alcune ore e siamo da¬vanti alla casa dove la Campo, che è divorziata, vive con sua figlia. I fotogrammi si susseguono, Carlotta entra in casa e, poco dopo, anche sua figlia.
Nel quadro si evidenzia un sentiero che collega questa se¬conda tessera ad un’altra; il cono temporale cambia da principe a remoto. Una Carlotta tanto più giovane esprime un desiderio sulla sua prossima maternità: spera che sua figlia, sempre che sia femmina, sia bella ma non bellissima, e che abbia talento. La giovane signora Rota, nel discorrere con il marito, fa emer¬gere alcune figure femminili e cerca consenso; ma Antonio, come sempre, si fa scudo dell’ironia pur di nascondersi.
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Enriquez

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intervista concessa a Nuccia Decio

Cari amici, per concludere il nostro discorso sul viaggio, riporto qui l’intervista con Nuccia Decio il 6 dicembre presso la libreria l’Argonauta di Roma.

Un percorso segnato: il grande quadro, gli universi paralleli e i coni temporali

I - Ed eccoci alla parte clou della serata: l’intervista all’autrice Enrichetta Caparco
Durante la narrazione abbiamo sentito ch si tratta di un viaggio che tutti prima o poi faremo, e fin qui tutto è abbastanza chiaro, ma, qual è il tuo riferimento in merito al ritorno a casa?

Il viaggiatore – Paolo - dovrà fare un percorso per tornare a casa sia fisicamente, sia con lo spirito e per compierlo troverà - come Ulisse - tutti gli ostacoli che lui medesimo si è creati. Perché? Vi chiederete.
Il mio primo riferimento va alla Bibbia, secondo la quale tutti possono tornare alla casa del Padre, che, in questo caso è l’Onnipotente. Tutti possono tornare a casa, ma sono molti quelli che non vi ritornano. E qui entra in campo il libero arbitrio del quale “Il Padre”, secondo La bibbia ci ha dotati. Ma, come autrice, ho voluto dare anche un’interpretazione in chiave moderna: il viaggio, un percorso già segnato da tracce che, in qualche modo, collegano i differenti mondi che, non sono solo quelli che ciascuno di noi attraversa durante la propria esistenza, ma anche altri universi, mondi che la influenzano profondamente, generando, a loro volta, altre tracce, insomma si tratta di una rete.

I Certo, molto interessante, ma quando parli di interpretazione moderna, hai dei precisi riferimenti?

Debbo dire di si: La fisica quantistica come primo esempio: Hisemberg, Schrodinger, Max Planck, Bohr, Dirak, anche, se vogliamo, il nostro Tullio Regge. Questi fisici si sono trovati di fronte a un paradosso: materia ed energia che sono la medesima cosa. Naturalmente io non sono un fisico…la mia è solamente un’interpretazione letteraria…

Possiamo già ravvedere questa tua interpretazione quando parli di universi paralleli, di coni temporali. E i viaggio di Paolo e Carlotta in quali universi e coni li collochi?

Anche in questo caso la parola paradosso mi sembra la più efficace; mi spiego: Paolo e Carlotta seguono un percorso la cui conclusione - che rappresenta come allegoria, il fulcro del cono temporale - li unisce. Pertanto, a differenza di altri personaggi, compaiono sempre, e lo sottolineo, nel cono temporale Principe, nel quale la vicenda scorre dal prologo all’epilogo. Ma in merito al “grande quadro” che la mia scrittura prende in considerazione, Paolo e Carlotta si trovano con sembianze differenti anche nell’intermedio e nel remoto, direi che, al linite, il grande quadro li considera addirittura prima della loro nascita.

Negli altri coni, in quello intermedio e remoto quali eventi- personaggi vengono collocati?

Per rispondere desidero riportare l’attenzione sul tempo che un fisico, per la precisione Julian Barbour, dichiara - in comunione con antiche credenze, l’induista e il Tao ad esempio,e anche la filosofia occidentale, pensiamo a Sant’Agostino con” il tempo dell’anima” – del tutto inesistente. Per semplificare: tutto ciò che il grande quadro rappresenta è sempre e solo presente e le date sono soltanto cifre. Di conseguenza se passato, presente e futuro si trovano sullo stesso piano i coni temporali sono soltanto un modo per intercettare la realtà negli universi paralleli,; ed è là che si formano le tracce, che sono a segni, informazioni da seguire seguire per compiere il viaggio. Ha presente Pollicino ?

Ma come si formano le tracce ?

E’ la stessa esistenza a creare le tracce, potremmo anche chiamarle impronte dell’esistenza. A determinarle sono gli eventi che a loro volta sono generate dai sentimenti di ciascuno e il mio romanzo parte esattamente da questi ultimi ( i personaggi) per seguire le tracce che i loro sentimenti hanno lasciato, Gli eventi, i sentimenti… lasciano tracce talora invisibili che soltanto qualcuno di loro riesce a decifrare, tracce criptate, direi.

Grazie Enrichetta Caparco, per questo tuo intervento e per aver scritto un libro dalle molteplici sfaccettature.
 

Enriquez

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la bellezza può salvare il mondo?

Cari amici, attraverso la scrittura del mio romanzo, continuo a pormi domande.

La bellezza può salvare il mondo?

Da “Tracce invisibili di universi paralleli”

Aprile 1969: Torino, Bloo up
Perlomeno all’inizio, a Carlotta non sembrava vero di pia¬cere tanto a quel brutto anatroccolo. Era paga delle sue lu¬singhe, non chiedeva altro. Antonio amava tutto di lei: occhi, capelli, sorriso.
La ragazza si atteggiava, faceva la modella. Era come se non fosse una studentessa, ma una pin-up internazionale, perché lui la fotografava in continuazione: la sua Hasselblad faceva click mentre lei studiava al Valentino o quando stava in un cimitero di auto; oppure la sorprendeva coi capelli bagnati; o le chiedeva di fermarsi sulla scalinata dei Principi di Piemonte in abito da sera e un maquillage perfetto; ma la fotografava anche spettinata e senza un filo di trucco.
Spesso Antonio la portava in camera oscura e lei vedeva se stessa apparire tremolante nel liquido di sviluppo. E allora tratteneva il respiro per lo stupore di trovarsi così: nuova, dif¬ferente, sconosciuta.
«Ma lo vedi quanto sei ****? Guardati. Sei proprio tu! Bella da non crederci». Questo le diceva.
 

Enriquez

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Mala tempora

Cari amici, la riflessione odierna riguarda i tempi scuri, quelli nei quali tutte le speranze sembrano venir meno, eppure ….

Mala tempora da: “Tracce invisibili di universi paralleli”.

-1944: Torino, Mauro Guala
…Decise che sarebbe stato il suo ufficio a venirle in aiuto. Avrebbe parlato al suo capo, l’ingegner Guala. Tante domeni¬che l’aveva accompagnato a Santa Cristina. Era quella chiesa che raccoglieva denaro da distribuire ai suoi poveri.
Incredibile, un grande uomo, una mente che chiedeva la ca¬rità!
Certo, sarebbe andata da lui per dirgli che suo fratello anco¬ra non sapeva della morte del padre. Doveva dargli la terribile notizia; le si spezzava il cuore ma doveva farlo. Ecco che cosa avrebbe fatto.
Gian Maria, con appena vent’anni, non aveva più nessuno tranne lei. A guerra finita l’avrebbe preso con sé, Alfio, suo marito, era d’accordo, gli avrebbe lavato e rammendato la biancheria, preparato da mangiare; lo avrebbe stretto tra le braccia e consolato come se fosse ancora bambino. Adesso era partigiano. Stava in montagna, ma lei non sapeva dove.
Fu Guala a organizzare la ricerca. Eleonora non seppe mai come l’ingegnere fosse riuscito a mettersi in contatto con il gruppo partigiano del fratello; ma seppe subito che avrebbe dovuto fare il viaggio: «Non si preoccupi per il mezzo, ci pen¬siamo noi», disse il suo capo, «ci vogliono tre ore, blocchi per¬mettendo, per raggiungere il rifugio. Se il mezzo che sceglia¬mo è quello giusto, non dovrà neppure camminare molto». La guardò sorridendo, poi le passò un braccio attorno alle spalle come avrebbe fatto un padre con la figlia. «Comunque, Nora, lei è giovane e dovrebbe farcela. Ho studiato il percorso, è segnato sulla mappa, tenga».
Guala insieme alla mappa aveva messo un paio di bancono¬te e un biglietto: per eventuali spese.
Un fuoristrada Nora l’aveva visto solo al cinema. Lo gui¬dava un signore in tuta mimetica, ma non era un militare. La
venne a prendere in ufficio, c’era anche l’ingegnere quando partirono.
«Non occorre passare la frontiera, vedrà che non vi ferma nessuno. Piuttosto, è vestita abbastanza, ragazza mia? Siamo solo a marzo e in montagna fa freddo». L’ingegnere sorrise: «L’ho messa nelle mani di una persona fidata».
«Era un santo», avrebbe raccontato Eleonora a Carlotta vent’anni dopo. «A guerra finita, assunse la direzione della *** Non so bene se finì il mandato; quel che è certo è che in un dato momento regalò tutti i suoi averi ai poveri ed entrò in convento tra i frati frappisti».

1934-1945: Augusta-Torino, Concetta Rota

La sorella di Alfio venne a Torino per ultima. Era il 1934.
Ci volle tutto il coraggio di sua madre per lasciarla partire. Un paio di settimane prima, Carmela – sarebbe diventata la nonna di Antonio – sognò la Madonna. «È stata Maria Vergi¬ne a dirmi: lasciala andare!».
Quando il fratello la vide scendere dal treno a Porta Nuova, con le arance e i salami nella valigia di cartone, Concetta aveva diciotto anni e portava ancora le trecce. Alfio all’epoca stava in Via Salabertano e aveva una stanza libera.
«Vedrai che ti piacerà», le disse. In quella stanza, prima di Concetta avevano dormito, scritto a casa e preparato i con¬corsi gli altri suoi fratelli. La ragazza vi sistemò un piccolo altare e ogni giorno pregava la Madonna del Carmelo suppli¬candola di farle trovare presto un lavoro.
La presero come segretaria alla Tommaseo, una scuola ele¬mentare tra il Monte dei Cappuccini e piazza Vittorio. Fu là che conobbe Salvatore Annata; anche lui maestro elementare, anche lui siciliano. Due anni dopo si sposarono.
Alfio accompagnò all’altare la sorella Concettina e Nora, la sua fidanzata, le fece da damigella.
Con lo scoppio del conflitto le due ragazze divennero en¬trambe vedove bianche. Differenti ma unite dalle circostanze, dividevano trepidazioni e speranze per i loro uomini al fronte. Abitavano lontane, eppure si visitavano scambiandosi notizie,
leggendosi reciprocamente le rare lettere, ascoltando gli ag¬giornamenti alla radio.
La sera del 13 luglio Eleonora era andata a prendere sua cognata al lavoro. La vide uscire dalla scuola Tommaseo alle 17:00; in tempo di guerra l’orario era ridotto per motivi di sicurezza. L’intenzione era quella di mangiare un cono gelato e fare due chiacchiere guardando le vetrine di via Po.
Sorprese dall’allarme – nessuna delle due sarebbe riuscita a tornare a casa – ripararono dalle suore francesi in via Lan¬franchi. Le religiose che in tempo di pace avevano tenuto una scuola, per l’occorrenza l’avevano trasformata in un albergo per i rifugiati.
«Sono scesi tutti in cantina», disse loro la suora al portone.
In cantina c’era una folla. Nella semioscurità videro vecchi che si tenevano il capo tra le mani, donne di età differenti, alcune con i loro bambini. C’erano ragazzi con la cartella rac¬colti intorno a un prete.
«È il parroco della Gran Madre», disse loro una suora. Ele¬onora e Concetta, che tenevano strettissima la mano l’una in quella dell’altra, assentirono.
«Nel primo mistero glorioso si contempla...». Il rosario in¬tonato dalle suore si interrompeva a ogni fragore esterno, e a quest’ultimo seguivano pianti e urla da panico. C’era sempre chi continuava a pregare e chi, invece, imprecava incurante del luogo. Quello che si percepiva fuori era spaventoso e ogni minuto sembrava eterno.
Ad un certo punto – era passata mezz’ora, un’ora, di più? – il parroco della Gran Madre cominciò a impartire l’estrema unzione.
 

Enriquez

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adesso

Eccomi di nuovo a voi con un nuovo quesito: Che cosa è cambiato nella famiglia e nel matrimonio? Molto, certamente. E la domanda che ci poniamo tutti è la seguente: abbiamo fatto passi avanti o si tratta di recessione?

Da “Tracce invisibili di universi paralleli”

Dicembre 1969: Torino, l’influenza

Quell’anno in dicembre ci fu un’epidemia di influenza. Le scuole si svuotarono; i medici correvano da una parte all’altra della città e per riuscire a riposare qualche ora dovevano staccare il telefono, all’epoca nemmeno i professionisti usavano ancora la segreteria telefonica. I Campo si erano contagiati l’un l’altro; erano tutti a letto. Tutti tranne Carlotta, che probabilmente, non s’ era l’era presa perché stava sempre dai Rota vaccinati in autunno. Lei allora - con il permesso della madre - era rimasta a casa del fidanzato una settimana. L’avevano messa a dormire nello studio privato del dottor Rota, sulla poltrona di pelle che fronteggiava il televisore. La poltrona si apriva per trasformarsi in un letto comodo; così quella stanza funzionava anche da camera per gli ospiti. Anche la prozia di Antonio (quella di Pont Canavese) dormiva lì quando era in visita. Nelle rispettive famiglie già si parlava di matrimonio; i due giovani infatti si sarebbero sposati nella primavera seguente, alla fine di maggio, presso la cappella di san Vito . “Grazie Dio, che li hai fatti ammalare tutti! Grazie!” declamava Antonio. Il fatto che - per tutta la settimana - non dovesse separarsi dalla sua ragazza nemmeno un’ora, gli procurava una carica emozionale difficile da contenere. Poco importava che non dormissero insieme, non potevano fare all’amore, pazienza; avrebbero recuperato il giorno dopo. La prima volta che lui e Carlotta l’avevano fatto, erano al mare. Tornati a Torino, era successo quasi ogni giorno in via Michelangelo, quando sua madre non c’era, naturalmente. Una volta la signora Rota era tornata a casa prima del previsto e i due si erano dovuti rivestire a rotta di collo. Antonio non era riuscito rimettersi la camicia e Carlotta era spettinata. “Chissà se la mia vecchia si era accorta di qualcosa” aveva buttato là Antonio. Facevano l’amore anche in via Garibaldi, nella stanza che lei divideva con la sorella perché di giorno durante la settimana, Antonella era in ditta. Adesso era a letto anche lei con l’influenza quindi, contagio a parte, non sarebbe stato possibile occupare quella stanza. In fin dei conti - se proprio volevano - con la macchina, bastava cercare il posto giusto e reclinare i sedili. Era già successo e non una volta soltanto. Certo, averla nella stanza accanto, di notte, per una settimana, era una tentazione irresistibile. Chissà, se sarebbe riuscito a dormire. Meglio lasciar perdere, comunque. Stavano per sposarsi, giusto? Quindi avevano la vita intera per recuperare.


. Carlotta prese il suo beauty case per sistemarlo sul piano a giorno della libreria;
la ragazza vide una lente di ingrandimento che fermava alcuni francobolli infilati in piccole buste di plastica. Sicuramente, pensò, fanno parte della collezione del dottor Rota e lispostò con il medesimo ossequio reticente del religioso che si accosta alla Sindone. Forse, pensò i miei futuri suoceri lo sanno che Antonio ed io.... Forse volevano solo salvare le apparenze. C’era qualcosa che le suonava falso nell’ospitalità complimentosa che stava per ricevere; dormire nello studio non le piaceva affatto perché significava mentire. Si rivolse ad Antonio che le stava sistemando la piantana presso la poltrona letto: “dobbiamo proprio recitare la commedia? Perché non posso dormire con te?”. Senza staccare gli occhi dal paralume in pergamena lui le rispose: “Si cara la mia bambolina, devi proprio, se non vuoi che a mio padre prenda un colpo apoplettico anzitempo… anche a mia madre verrebbe un accidente e sono ancora troppo giovani per morire”. Compiaciuto della battuta un tantino macabra fece una risata prima di approfondire: “ Il fatto è che pensano a te come alla vergine Maria e non si aspettano di sicuro che noi….”. “ Loro pensano così, mentre tu invece….”. “ Certo Bambolina. Te lo dico sempre che hai la faccia da porca”. La cosa migliore pensò la ragazza é non ribattere; Era abituata alle volgarità alla moda. Antonio - con quella frase - voleva semplicemente farle un complimento, dirle quanto la trovasse sexi. “Deve già volerti molto bene mio padre se ti fa dormire nel santa santorum”. “E la zia Rosina allora? Anche lei dorme qui.” “Ecco. Hai colto nel segno. Per la vegliarda mio padre ha una venerazione”. Erano le sette di sera, tra poco sarebbero andati a cena tutti insieme e - dopo - lei avrebbe passato la notte sotto lo stesso tetto del fidanzato. Le sembrava una cosa impegnativa, una specie di prova generaleAnzi - a pensarci bene - di più, era come se quella sera lei avesse firmato un contratto. E se cambiava idea? E se qualcosa le avesse fatto dire basta? Non sapeva bene nemmeno lei immaginare che cosa, ma se le fosse venuta voglia di rompere tutto, di scappare, insomma di lasciare Antonio; come avrebbe potuto adesso? Come era possibile che si fosse già a quel punto? Era capitato tutto ad un tratto, come per l’avvolgimento veloce di una pellicola.. Era stato come addormentarsi giovane e svegliarsi vecchia, così, all’improvviso. Ebbe un brivido a quel pensiero.

Ciao a tutti, eccomi di nuovo a voi con una domanda: che significa “adesso”?
Per Julian Barbour adesso è l’”Attimo figgente”; e sono molti coloro che hanno trovato spunto in questa realtà per trasformarla in arte. Ebbene amici, ci ho provato anch’io.

Da “Tracce invisibili di universi paralleli”

A ritroso
Stendere il programma della nuova convention aveva richie¬sto tempo. Tutti avvertirono che avrebbero tardato per cena. Se ne andarono alla spicciolata, con una battuta o un prome¬moria per Nadia, designata a fingere che avrebbe preso nota di tutto.
All’architetto Campo erano toccate le domande, tante, ma non a tutte aveva saputo rispondere come desiderava.
Era uscita per ultima.
Alle dieci di sera percorreva di nuovo via Po in direzione di piazza Vittorio; questa volta da sola. Cercò le chiavi della Golf sul fondo della borsa. “Uffa: sono finite sotto la fode¬ra”. La macchina l’aveva posteggiata prima di via Bonafous; non ricordava esattamente dove. “Quante volte ho già fatto questa strada?”. Non avrebbe saputo azzardare un numero – e poi lei, coi numeri, aveva uno strano rapporto – in ogni caso, erano più di vent’anni che si faceva quei portici avanti e indietro, giorno dopo giorno.
“Quante volte ho già fatto questa strada?” ripeté a se stessa.
Quella domanda banale era un invito a stare in campana. Perché? Fare una strada, percorrere. Un concetto assimilabile a un oggetto con la scia; per esempio a una cometa: “Percor¬rere, vivere, andare avanti”.
Quando faceva quei portici, spesso Carlotta si sorprende¬va ad ascoltare il battito del suo cuore. In realtà, nemmeno lo sentiva lei quel cuore, che non avrebbe smesso di battere anche se l’avesse voluto, che sarebbe andato avanti come un orologio segnando il passare del tempo. Un battito lento, re¬golare scandiva intervalli di vita sempre uguali: il flusso della sua esistenza.
“Stupita di me”. Adesso Carlotta si cercava dentro.
Non era la signora Campo quella che tentava di raggiungere e neppure l’architetto Campo, nemmeno un’italiana, infine nep¬pure una donna... Semplicemente l’essere vivente, la creatura di quell’universo col quale faceva i conti giorno dopo giorno.
Carlotta sprofondava. E al di là delle conoscenze, dei sen¬timenti, della buona educazione, dell’apparenza, non trovava niente, soltanto buio. Eppure qualcosa c’era, doveva pur es¬serci se da quel nulla fertile lei rinasceva attimo dopo attimo. Nello stesso momento bruciavano e si rigeneravano miliardi di cellule. L’aveva letto o sentito? Non ricordava esattamente.
Una misteriosa essenza aveva costruito la prima traccia e a questa altre se ne erano aggiunte; ciascuna era la matrice del¬la seguente. Un insieme incommensurabile, scintille fatte di lei che andavano sommandosi le une alle altre, per formare i suoi giorni, mesi, anni. Lei passava in continuazione la soglia, l’attimo fuggente. Lei che non era una, ma tante. E dove era¬no, adesso tutte quelle bambine, adolescenti, giovani donne? Erano ancora in lei?
No, certo che no, si disse. Erano in lei solo come memoria. Perché lei era altro adesso, e tra un attimo sarebbe stata altro ancora dentro e fuori.
Prima non era madre, Francesca non c’era.
Davvero non c’era? Nella grande mappa del destino, quali e quanti fili intricati l’avevano condotta sino a sua figlia?
“In definitiva il percorso è già segnato, è unico”; e qui stava il paradosso, eravamo noi a volerlo così.
Forse Francesca c’era già ancor prima di nascere, si disse. C’era sempre stata. A cominciare da quell’essere minuscolo che nuotava nel liquido amniotico, per continuare nella pic¬cina che l’aveva guardata, quando gliel’avevano messa tra le braccia la prima volta. Carlotta ne ricordava l’aria di rimprove¬ro: “La vedi la mia testa come si è allungata, per quale motivo ho dovuto passare di lì? Era così stretto, perché tanta fatica?”.
Segni, ciascuno di noi è fatto di segni. Tracce, si disse, ma nessuno le poteva vedere tutte insieme. Così come non si po¬teva vedere il futuro; solo ricordare ciò che la memoria man¬teneva intatto.
Il suo DNA sarebbe stato sempre lo stesso sino alla fine, non lei. Lei abbandonava una Carlotta Campo per entrare in un’altra e ciascuna in quella nuova. Era un frammento sempre differente di un universo senza tempo, era una traccia che non se ne sarebbe mai andata, una linea, un percorso.
Ma allora, dove stava il libero arbitrio?
 

Enriquez

Member
Ciao a tutti, eccomi di nuovo a voi con una domanda: che significa “adesso”?
Per Julian Barbour adesso è l’”Attimo figgente”; e sono molti coloro che hanno trovato spunto in questa realtà per trasformarla in arte. Ebbene amici, ci ho provato anch’io.

Da “Tracce invisibili di universi paralleli”

A ritroso
Stendere il programma della nuova convention aveva richie¬sto tempo. Tutti avvertirono che avrebbero tardato per cena. Se ne andarono alla spicciolata, con una battuta o un prome¬moria per Nadia, designata a fingere che avrebbe preso nota di tutto.
All’architetto Campo erano toccate le domande, tante, ma non a tutte aveva saputo rispondere come desiderava.
Era uscita per ultima.
Alle dieci di sera percorreva di nuovo via Po in direzione di piazza Vittorio; questa volta da sola. Cercò le chiavi della Golf sul fondo della borsa. “Uffa: sono finite sotto la fode¬ra”. La macchina l’aveva posteggiata prima di via Bonafous; non ricordava esattamente dove. “Quante volte ho già fatto questa strada?”. Non avrebbe saputo azzardare un numero – e poi lei, coi numeri, aveva uno strano rapporto – in ogni caso, erano più di vent’anni che si faceva quei portici avanti e indietro, giorno dopo giorno.
“Quante volte ho già fatto questa strada?” ripeté a se stessa.
Quella domanda banale era un invito a stare in campana. Perché? Fare una strada, percorrere. Un concetto assimilabile a un oggetto con la scia; per esempio a una cometa: “Percor¬rere, vivere, andare avanti”.
Quando faceva quei portici, spesso Carlotta si sorprende¬va ad ascoltare il battito del suo cuore. In realtà, nemmeno lo sentiva lei quel cuore, che non avrebbe smesso di battere anche se l’avesse voluto, che sarebbe andato avanti come un orologio segnando il passare del tempo. Un battito lento, re¬golare scandiva intervalli di vita sempre uguali: il flusso della sua esistenza.
“Stupita di me”. Adesso Carlotta si cercava dentro.
Non era la signora Campo quella che tentava di raggiungere e neppure l’architetto Campo, nemmeno un’italiana, infine nep¬pure una donna... Semplicemente l’essere vivente, la creatura di quell’universo col quale faceva i conti giorno dopo giorno.
Carlotta sprofondava. E al di là delle conoscenze, dei sen¬timenti, della buona educazione, dell’apparenza, non trovava niente, soltanto buio. Eppure qualcosa c’era, doveva pur es¬serci se da quel nulla fertile lei rinasceva attimo dopo attimo. Nello stesso momento bruciavano e si rigeneravano miliardi di cellule. L’aveva letto o sentito? Non ricordava esattamente.
Una misteriosa essenza aveva costruito la prima traccia e a questa altre se ne erano aggiunte; ciascuna era la matrice del¬la seguente. Un insieme incommensurabile, scintille fatte di lei che andavano sommandosi le une alle altre, per formare i suoi giorni, mesi, anni. Lei passava in continuazione la soglia, l’attimo fuggente. Lei che non era una, ma tante. E dove era¬no, adesso tutte quelle bambine, adolescenti, giovani donne? Erano ancora in lei?
No, certo che no, si disse. Erano in lei solo come memoria. Perché lei era altro adesso, e tra un attimo sarebbe stata altro ancora dentro e fuori.
Prima non era madre, Francesca non c’era.
Davvero non c’era? Nella grande mappa del destino, quali e quanti fili intricati l’avevano condotta sino a sua figlia?
“In definitiva il percorso è già segnato, è unico”; e qui stava il paradosso, eravamo noi a volerlo così.
Forse Francesca c’era già ancor prima di nascere, si disse. C’era sempre stata. A cominciare da quell’essere minuscolo che nuotava nel liquido amniotico, per continuare nella pic¬cina che l’aveva guardata, quando gliel’avevano messa tra le braccia la prima volta. Carlotta ne ricordava l’aria di rimprove¬ro: “La vedi la mia testa come si è allungata, per quale motivo ho dovuto passare di lì? Era così stretto, perché tanta fatica?”.
Segni, ciascuno di noi è fatto di segni. Tracce, si disse, ma nessuno le poteva vedere tutte insieme. Così come non si po¬teva vedere il futuro; solo ricordare ciò che la memoria man¬teneva intatto.
Il suo DNA sarebbe stato sempre lo stesso sino alla fine, non lei. Lei abbandonava una Carlotta Campo per entrare in un’altra e ciascuna in quella nuova. Era un frammento sempre differente di un universo senza tempo, era una traccia che non se ne sarebbe mai andata, una linea, un percorso.
Ma allora, dove stava il libero arbitrio?
 

c0c0timb0

Pensatore silenzioso 😂
Interessante, senza dubbio. Un bel "viaggio". Ma dovrò rileggere tutto con calma. L'argomento è senz'altro affascinante.
 

Enriquez

Member
Cari amici,
in questi giorni difficili forse fare un paragone col passato potrebbe essere di qualche utilità, soprattutto se quel passato filtra attraverso la scrittura, poiché nulla come quest’ultima può portarci a riflettere.


Complotti, giochi di potere, incidenti probatori ma anche storie ordinarie sono tracce che i fotogrammi attualizzano nel cono temporale intermedio.
È l’anno 1969. Tutti soffrono la strategia della tensione e il sussultorio movimento dei media scuote l’Italia e con essa le università. Carlotta Campo e Antonio Rota si sono fidan¬zati e dalle rispettive famiglie emergono differenze di ruolo; i Campo e i Rota si confrontano misurando gli uni le risorse degli altri.
È il 13 dicembre del 1969. Sono le 16:37. Al centro di Mi¬lano, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, esplode una bomba.
È il 14 dicembre del 1969. Migliaia di giovani universitari si riuniscono. Anche Carlotta Campo e Antonio Rota partecipa¬no ai collettivi.
Il cono temporale cambia.
È l’ottobre 1992. È arrestato a Santo Domingo Carlo Digi¬lio, che viene estradato in Italia. Carlo Digilio è un ex membro di Ordine Nuovo. Esperto di armi ed esplosivi è stato in con¬tatto con i servizi segreti statunitensi.
Una nuova finestra si apre: è il 1993.
Digilio è pentito e parla del coinvolgimento della CIA nelle attività di Ordine Nuovo. Afferma di aver ispezionato perso¬nalmente i congegni esplosivi usati nelle stragi. Il suo nome in codice è “Zio Otto”. Sostiene che Maggi gli ha parlato degli attentati come parte della strategia atta a provocare una svolta nella politica del paese, con il beneplacito degli Stati Uniti. Dice che il suo referente nei servizi USA è il capitano David Carret, e che questo progetto è fallito per i tentennamenti di una parte della Democrazia Cristiana.
13 dicembre 1969: Milano, strage di piazza Fontana, con¬traccolpo in facoltà

La riunione venne convocata alla chetichella: tutti a casa del Rota in Via Boccaccio alle 14:00, perché in via Michelangelo ormai era cantiere. La signora Rota aveva lasciato via libera. L’avrebbe fatto prima, ma si dovevano andare a prendere alla stazione di Porta Nuova quelli del “Poli” di Milano. Sarebbero arrivati con il rapido alle 12:30.
«Debbono pur mangiare qualcosa», disse qualcuno.
«Porca vacca. È vero! Dico a mia madre di preparare dei panini», aveva detto il Rota.
Ci sarebbe stata anche Elisa Mais e il suo gruppo di femmi¬niste. Carlotta le conosceva poco. Elisa aveva discusso la tesi nel ’68 e, siccome era tra le migliori del corso, aveva comin¬ciato a lavorare in istituto con il professor Ceragioli. Ma ci era rimasta alla fine, e come le piaceva! Per Antonio la sua era solo una scusa per rimorchiare! La verità, secondo Carlotta, era un’altra: erano i ragazzi a starle appresso, per quel non so che che aveva lei sempre nuovo, o era perché li strapazzava? Correva voce che certi studenti masochisti se la godessero a essere messi in piazza: prima Elisa se li portava a letto e poi ci scriveva sopra. Sì, perché collaborava con «Effe», la rivista ultra femminista. Elisa non si limitava a scrivere, curava an¬che l’attività di gruppo. Se Carlotta alle riunioni e ai cortei ci andava due volte su tre era perché a convincerla, prima, era sempre la Mais; anzi, le chiedeva anche di fare volantinaggio e di aiutarla a preparare manifesti e cartelli. Che poi, in tutta franchezza, Carlotta aveva le medesime idee. C’era amicizia, ma quella vera, tanto che al suo compleanno la Campo si era perfino commossa. Intanto c’erano solo ragazze, i maschi non avevano accesso ed era già tanto se la festeggiata accetta¬va i regali e concedeva loro di passare a prendere le invitate. Perché lei non era la sola a essersi messa con uno della facoltà.
Insomma, era stato bello quella sera stare tra donne. A un certo punto avevano spento tutto e a illuminare la stanza era¬no state unicamente trenta candeline. Che urla e che applausi quando Elisa le aveva spente! Naturalmente avevano brindato 284
con i bicchieri di carta; anche i piatti per la torta lo erano: «Non voglio sprecare il mio tempo a lavarli», era stato il com¬mento di Elisa.
«E gli atri chi sono?», aveva chiesto ad Antonio Carlotta.
«I soliti. Gin, Michelangelo, Fabio. Sono loro che hanno preso in mano per primi la situazione, ah Fabio viene con Marcella».
«Buona quella!», era stata la risposta di Carlotta.
«Perché? Ti è antipatica? Veramente anche a me. Ma il fatto adesso è un altro. È che non capisco che cosa possiamo fare noi. Che cosa possiamo ottenere? La strage purtroppo c’è già stata e vedrai che presto troveranno anche il mandante, anzi, a quanto mi dicono l’hanno già trovato».
Arrivarono in ritardo. Erano in tanti, una ventina solo quelli di Milano, Carlotta non si aspettava di vedere tanti ragazzi.
La madre di Antonio se n’era andata riluttante. Ad avere ragazzi in casa c’era abituata, ma non dei rivoluzionari!
«Attenzione alle sigarette. Mi raccomando a te Carlotta», e con quella frase di chiusura intendeva tante altre cose.
Avevano disdegnato il tavolo del soggiorno e anche le pol¬trone; si erano seduti tutti per terra. Qualcuno aveva chiesto il posacenere, qualcun altro era uscito sul terrazzo per fumare.
Quando un giovane con ricci da cherubino ed eskimo co¬minciò a parlare, il tono delle voci annichilì di colpo.
Era il leader.
«È successo qualcosa non soltanto grave, ma irreparabile: è cominciato un massacro inutile, un atto terroristico senza precedenti. Alle 16:37 al centro di Milano, alla Banca Nazio¬nale dell’Agricoltura in piazza Fontana, è esplosa una bomba provocando la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ottantotto. Una seconda bomba è stata rinvenuta, fortu¬natamente inesplosa, nella sede milanese della Banca Com-merciale Italiana, in piazza della Scala; ma è stata fatta brillare distruggendo gli elementi probatori in grado di risalire all’ori¬gine dell’esplosivo e, soprattutto, a chi ha preparato gli ordigni. È questa la prima domanda che noi studenti dei politecnici di Torino, Firenze, Roma e Milano ci poniamo. Chi è stato?».
“Bella scoperta!”. Brusìo.
«Una terza bomba è esplosa a Roma alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collega l’entrata della Banca Nazionale del La¬voro di via Veneto con quella di via di San Basilio, abbiamo i cablogrammi. Altre due sempre a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del mu¬seo del Risorgimento, in piazza Venezia. Si contano dunque cinque attentati terroristici nel pomeriggio di ieri, concentrati in un lasso di tempo di soli 53 minuti, per colpire contempo¬raneamente le due maggiori città d’Italia: Roma e Milano».
Gin e Michelangelo al lato opposto del salone parlottavano, fu Gin ad alzare la mano: «Immagino che tutti insieme dob¬biamo far qualcosa».
Brusio in crescendo.
«Sì, ma come?», chiese qualcuno.
«Scioperiamo, facciamo casino, sono quelli di destra e dob¬biamo fermarli», disse un piccoletto, matricola forse? Non era di Milano e Carlotta non l’aveva mai visto.
«Non dire cazzate», lo zittì Elisa. E qualcun’altra le diede manforte: «Sì, perché si fa presto a parlare, ma anche a scas¬sarci le palle con i bla bla bla».
«Palle che non hai, stronza!», la rimbeccò un maschietto che stava sempre fisso al bar della facoltà.
Rapida espressione di dissenso.
«Più di te, di sicuro».
Risata fragorosa e fischi di sottofondo.
«Prego, ragazzi, compagni», Gin non alzava mai la voce, non sarebbe servito. «Qui non si tratta ancora di entrare in azione, e come poi? E contro chi? Qui occorre prima di tutto pren¬dere coscienza».
«E a cosa serve se poi non si fa niente?», fu l’obiezione di un altro.
«Serve, eccome se serve: non è quello che abbiamo dovu¬to imparare con le nostre battaglie? Per quale motivo le cose sono cambiate, anzi stanno ancora cambiando? Perché siamo riusciti a farci ascoltare solo quando ci siamo resi conto della situazione».
«Sì, ma qui la questione è un’altra, quei fascisti ci stanno distruggendo, occorre agire», urlò Marcella.
Fu il leader a risponderle: «Agire significa fare quello che stiamo facendo ora; riunirci nei collettivi per raccogliere le risorse per chiarire o arginare la tremenda emorragia che sta affliggendo la sicurezza nazionale dei democratici».
 

Enriquez

Member
Notte di Natale un augurio sincero a tutti voi

Buon Natale a tutti amici! Ai prossimi giorni di quest'anno e di quello che sta per raggiungerci.
 

Enriquez

Member
Uomini bambini

Cari amiche e amici autocritici,
Oggi vorrei riflettere su certi comportamenti maschili attraverso le pagine del mio romanzo: “Tracce invisibili di universi paralleli”.
Maggio 1971: Torino, la “trovata”
Quella di Antonio era una gioia effimera, limitata nel tempo come un biglietto del luna park. Demandava agli oggetti il compito di procurargli la felicità, desiderava possederli così come possedeva sua moglie, fisicamente. Voleva scoprirli, manipolarli, smontarli, trasformarli. Li desiderava per com¬pensare un vuoto, una mancanza e sua moglie ci aveva prova¬to a capire che cosa volesse veramente, ma lui aveva evaso la questione, si era burlato di lei, chiamandola “dottor Freud”. Tutto sommato non gli importava più di tanto risolvere il pro¬blema quando la soluzione era così a portata di mano: per sentirsi pago gli bastava un trenino da montare.
Anche le sue conversazioni con gli amici si limitavano alle cose materiali. Era sufficiente sentirne una per rendersi conto di come sarebbero state le altre; persino se parlavano di per¬sone – un campione di Formula Uno per esempio – a contare non erano mai i sentimenti, ma la pista, i tempi, le qualifiche raggiunte.
Carlotta l’aveva fatto notare a Giovanna: «Gli uomini usa¬no le informazioni come i ragazzini le figurine dei calciatori, semplicemente scambiandosele».
«Cosa intendi dire? Che non parlano?».
«No. Per parlare parlano. Proiettano se stessi sugli oggetti ma, facci caso, a riunirli è sempre una novità nel campo elet¬tronico, l’ultimo teleobiettivo uscito sul mercato o qualcosa del genere».
Antonio e i suoi amici usavano cervello e informazioni solo per ottenere risultati; per questo il più delle volte si trovavano bene in gruppo. Prendevano le decisioni insieme, ma ciascu¬no rimaneva chiuso in se stesso; isolato come un astronauta sulla rampa di lancio.
Presto, le iniziative del marito avrebbero lasciato Carlotta distratta e persino scettica. Per quale motivo Antonio doveva sempre imbarcarsi in battaglie alla Don Chisciotte? Questo si sarebbe chiesta una volta dichiarata la resa, ma non in quel momento. Carlotta credeva nel suo uomo, l’immagine del ma¬rito era intatta; ancora non c’era nemmeno l’ombra del male
che l’onnipotenza fanciullesca di lui le avrebbe lasciato dentro.
In ciascuno c’è una parte del tutto aperta alle illusioni – spe¬cie negli anni della giovinezza – perché senza illusioni nessu¬no può andare avanti. Le speranze mancate, a volte, non sono altro che inganni necessari. “Stimolano le endorfine, ecco cosa fanno le illusioni” penserà alla fine, “creano quel carbu¬rante che permette a tutti, anche ai più deboli, di affrontare la fatica di vivere”.
Era il caso di Antonio? Sua moglie, quella domanda, non soltanto non poteva ancora farsela, ma neppure accettarne la risposta.
Una sera, verso la fine di maggio, guardandolo negli occhi capì che stava per uscirsene con qualche novità. Fu a cena, davanti al vitello tonnato, che cercò di prendere il discorso alla lontana e, proprio per questo, sua moglie cominciò a sentire puzza di bruciato.
«Sto per intraprendere una nuova attività». Antonio fece la solita pausa ad effetto prima di aggiungere: «Presumo che sarà molto redditizia».
Quella stima aveva in sé l’ottimismo di chi non ha mai ri¬schiato un capitale sudato, ma solo quello che, ai fortunati come lui, appartiene per nascita.
«Non si tratta di teoria applicata, ma di azione sul campo». Solo dopo l’abuso di termini da comitato rivoluzionario di nuova generazione ritenne di aver creato la giusta suspense e di poter presentare al meglio il suo business.
Carlotta lo ascoltò con attenzione.
«Ho capito, vuoi realizzare qualcosa con il poliuretano espanso. Una cosa mi sfugge però, scusami se l’hai detto e te lo faccio ripetere; insomma, di che oggetti si tratta?».
Antonio con uno scatto insofferente lasciò le posate sul piatto. Fece una smorfia che voleva essere un sorriso: «La do¬manda, bambolina, mi sembra ingenua». Critica a parte, il suo tono era seccato e poi non aveva risposto.
Carlotta conosceva bene la prosopopea di Antonio; la inal¬berava come difesa preventiva appena si sentiva messo in dif¬ficoltà. Rispose a quel sorriso mancato con un sorriso vero, come per scusarsi di non essere alla sua altezza. Era il suo
modo per smontare le frequenti aggressività verbali del marito.
Aveva imboccato la strada giusta, perché lui non avanzò al¬tre critiche, ma di buon grado rispose alla domanda e il suo tono cambiò per incanto.
«Tutti gli oggetti e nessuno; l’oggetto in sé ha poca impor¬tanza. Quello che conta è come mi riesce di farlo, credimi. La tipologia della produzione, è ovvio, dipenderà dalla domanda del mercato».
“Ha ragione lui” fu il pensiero della ragazza, ma poi tornò a rifletterci. Suo marito avrebbe avuto ragione solo se non ci avesse pensato nessuno a fare delle cose in poliuretano espan¬so. In fondo era una specie di plastica, che però si gonfiava.
«Ti prego Antonio», ribatté a quel punto, «non fare il ma¬nager, non con me almeno. I discorsi di economia e di mar¬keting lasciali perdere, perché di quella materia io so meno di niente; semplicemente voglio dire questo: è stato un sogno illuminante?». Ma si interruppe, rendendosi conto che l’ironia avrebbe cambiato il suo atteggiamento da modesto a critico. “Non scherzare ragazza, sennò si offende. Proviamo così”: «Ti sarà pure venuta per qualche ragione quest’idea. O no?».
Anche lei aveva smesso di mangiare. Si versò dell’acqua; in gravidanza il vino non lo sopportava, le dava spossatezza. Guardò fuori; con l’ora legale, a cena c’era ancora il sole alto e il terrazzo era tutto una fioritura.
«Ferma così, fammi vedere bambolina. Sei uno schianto con quegli occhi! Vado a prendere la macchina fotografica, ci met¬to un lampo, aspetta». Antonio aveva già appoggiato il tova¬gliolo sul tavolo e si stava alzando: «Ma sai che colore hanno i tuoi occhi? Quello delle foglie di rosa...».
Lei gli sorrise di nuovo, questa volta per tenerezza. La vede¬va sempre bellissima; anche adesso, che stava diventando una piccola balena.
«Grazie. No, Antonio... stai qui. Non muoverti per piacere. Tu hai l’animo del designer, una creatività bestiale. Ti assicuro che non ho nessun dubbio sul tuo talento. Ecco! Ci sono. Ho capito. Hai pensato a qualcosa da realizzare in poliuretano. Quello che voglio dire però è questo: l’hai disegnato questo “qualcosa”?».
Antonio colse solo la seconda parte del discorso di Carlotta, e fu come se non gli avesse chiesto nulla. Certo, lui disegnava. Era un designer lui!
Sua moglie, che si aspettava una risposta, doveva assistere a qualcos’altro. Una piccola esplosione di gioia, anzi nemmeno piccola, perché in quel momento il marito pareva un vincitore di Totocalcio quando scopre d’avere i numeri giusti. «È vero! Hai ragione, non ci avevo pensato! Potrei realizzare delle pol¬trone. Forse anche delle lampade...».
Carlotta non poteva crederci. Antonio aveva solo ventitré anni, era vero questo, ma non era un ragazzino. Non poteva più ragionare come quando giocava con i Lego!
E l’ingenua doveva essere lei!
«Hai presente il costo di un’operazione del genere? E se poi non riesci a venderle quelle cose? Manda i tuoi disegni a un’in¬dustria. Ne conosco, sai, di ragazzi che l’hanno fatto; hanno deciso loro i materiali, certo... Perché vuoi produrle tu?».
«Perché, perché... Uffa! Non lo so perché. Perché è più bel¬lo, ecco. E poi ho già trovato con chi dividere le spese».

Giugno 1971: Torino, da via Stradella a via Michelangelo. La fase zero

Con l’idea in saccoccia, Carlotta non avrebbe saputo dire da chi dei due fosse scoccata la freccia: Antonio Rota e Giuseppe Bondi si misero all’opera.
Il loft di via Strabella accolse la nuova industria con la cor¬dialità e l’efficienza di un oste nei periodi di recessione. I locali infatti, asciutti e ben ventilati, ampi e attrezzati di tutto quel che occorreva, materiale compreso, per produrre con il po¬liuretano espanso, erano luminosi e freschi in quell’estate che si annunciava torrida. Almeno questa fu la versione di suo marito.
Lei, che si era guardata bene dal visitarli, non avrebbe messo la mano sul fuoco per garantire la fedeltà dei fatti e non era da escludere che i soci avessero, diciamo così, rotto il salvadanaio per effettuare gli acquisti necessari.
Il gatto e la volpe non persero tempo. Così li avrebbe so¬prannominati nel quadro della mission: naturalmente il gatto era Antonio, membro in forze di quella che per certi versi si poteva definire una vera e propria associazione a delinquere.
Insomma, i due collezionarono tutta una serie di aborti in poliuretano espanso, quindi, in perfetto accordo, decisero che casa Rota junior sarebbe stata la vetrina o, per dirla all’ameri¬cana, lo show room della prima serie.
Ed ecco che i prototipi, ancora caldi di macchina, arrivava¬no là l’uno dopo l’altro. E via via che la fase zero procedeva, ciascuno trovava la sua sistemazione sul soppalco del salone.
Sin dai primi di giugno, la giovane signora Rota aggiunse un posto a tavola. Vedeva Antonio, sporco e affamato, soltanto all’ora dei pasti e sempre con Beppe. Mangiando, i due discu¬tevano sulle difficoltà tecniche e sugli errori progettuali con navigata padronanza.
Sin dal principio Antonio aveva cercato, lo faceva sempre, di tirar dentro sua moglie, ma Carlotta si dissociò. I prototipi non li degnava nemmeno di uno sguardo; un po’ perché non credeva nell’impresa – Antonio l’avrebbe presto abbandonata come aveva fatto con tante altre – e un po’ per scaramanzia: anche lei stava per ottenere un risultato e, naturalmente, si augurava fosse migliore.
Degustando il caffè, i soci rimiravano la produzione e, pri¬ma di tornare in fabbrica, scattavano delle fotografie.
A luglio l’impresa chiuse per ferie.
 

Enriquez

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indagine: padri e figli: che cosa è cambiato.

Amici e amiche, continua l’indagine “Padri e figli” attraverso “Tracce invisibili di universi paralleli”.

Settembre 1968: Torino, in un tratto della via San Tommaso
Intendiamoci, fisicamente Armando non era affatto male, ma quando – e quante volte era già successo – lui l’aveva ab¬bracciata, tenuta per mano o aveva cercato di baciarla, lei non aveva mai sentito il batticuore. Si era sempre innamorata di ragazzi della sua età, persino più giovani.
Quella sera una coppia di sposi inaugurava la propria villa a Moncalieri. Sulla quarantina e senza figli, erano entrambi clienti di Armando; gente facoltosa, come i Campo del resto:
perché anche loro appartenevano a quella parte della borghe¬sia destinata a estinguersi nel successivo trentennio. Sportivi ma mondani, avevano istruito il miglior catering di Torino per un ricevimento che invitava le signore a indossare abiti da sera e gli uomini, se non proprio lo smoking, perlomeno il completo scuro.
Carlotta per l’occasione sfoggiava, sotto il bolero di visone, un tubino nero con paillettes sostenuto da spalline sottili, l’a¬bito le fasciava il busto, lasciando scoperte le spalle; la gonna giungeva appena alle ginocchia e sandali dal tacco a spillo mo¬dellavano caviglie e polpacci. Lo specchio le rimandò l’imma¬gine rassicurante di una ragazza sana e fiorente.
Prima di uscire, suo padre la guardò critico: «Hai deciso di strafare?».
Lei fece spallucce, sapeva di star bene vestita così; infatti, dopo, gli uomini la circondarono di mille attenzioni.
«Guarda che potrebbe tranquillamente essere tua figlia», la frase retorica di Alessandro era per Andrea Garbi, quarant’an¬ni ben portati, primario alla clinica ostetrica del Sant’Anna, un cliente abituale alla Casa di Armando.
Carlotta guardò suo padre: era geloso di lei. Possibile?
Naturalmente anche Armando era tra gli invitati, ma nes¬suno, nemmeno la figlia di Campo, si aspettava che cogliesse proprio quell’occasione per rendere ufficiale il suo interesse per lei. E invece la chiamava “pulcino” e si permetteva le ef¬fusioni manifeste di un fidanzato. Era nel suo stile proporsi davanti a tutti e poi, seppure più vecchio, era papabile come marito.
Non che dai suoi gesti trapelasse chiaramente una richie¬sta di matrimonio, ma quel suo coinvolgere apertamente il genitore della ragazza escludeva di per sé altre possibilità di approccio. In altre parole: rivolti a Carlotta alla presenza di Alessandro, certi atteggiamenti non potevano essere altro che dichiarazioni di fidanzamento.
L’azione d’altro canto era strategica: se Carlotta si fosse di¬mostrata scontrosa o peggio scandalizzata, lui, agli occhi di tutti e in particolare di suo padre, avrebbe fatto apparire quel¬le avances scherzose, galanti volendo, ma niente di più.
vece lei non avesse mostrato contrarietà – perché di sorpresa no, non si poteva parlare, che già da un paio d’anni le ronzava intorno in crescendo – se lo avesse accettato davanti a tutti, suo padre, anche dissenziente, non avrebbe potuto negarle nulla, perché la ragazza era maggiorenne e il Medioevo finito da un pezzo. Quindi, che la cosa gli piacesse o no, Alessandro avrebbe dovuto, comunque, considerarla una richiesta seria.
«Non è innamorato di te», le disse.
Carlotta non rispose alla provocazione di suo padre.
Stavano tornando a casa e lei gli camminava di fianco senza parlare. Lasciata l’auto in un garage della via Barbareux – non c’erano box auto nel palazzo dove abitavano – avevano appe¬na voltato in via San Tommaso, quando Alessandro smise di camminare, obbligando sua figlia a fermarsi.
«Sei una bella ragazza», disse «non sto dicendo che non gli piaci, ma è una questione calcolata la sua e poi... sei troppo giovane per lui!».
La ragazza sorrise: «Papà, Armando ha soltanto trentacin¬que anni».
«Caspita! Dodici più di te».
Carlotta non capiva: «E allora? Quante ne conosco di coppie in cui lui ha dodici, quindici, persino vent’anni di più! Il fatto che tu abbia solo un anno più della mamma non è la norma».
Suo padre – ancora non aveva ripreso a camminare – la guardò negli occhi: «Davvero ti andrebbe uno come Arman¬do per marito? Possibile?».
Lei prima fece un cenno d’assenso, poi disse: «Sì, perché no?», ma subito dopo scosse la testa, tanto da sentire i suoi capelli frusciare contro il colletto di pelliccia: «No! Beh, no».
A quell’ora non c’era anima viva per strada ma, se ci fosse stato qualcuno, avrebbe visto un signore con la barba e con un soprabito scuro alzare la voce spazientito con una ragazza troppo grande per essere sua figlia, ma troppo giovane per esserne la moglie.
«Sì o no?», adesso urlava.
Carlotta era disorientata, non si aspettava tanta foga: «Ve¬ramente... non l’avevo mai considerato possibile. Però mi ha fatto piacere che lui volesse me, proprio me! Nemmeno ci pensavo che non saresti stato contento. Siete amici, no?». E lo guardò a sua volta. Era così serio suo padre, sembrava ferito.
«Che siamo stati amici è vero, ma non posso tollerare che lui se ne approfitti a questo modo. Che amicizia è quella che sfrutta una situazione?», disse. Aveva ripreso a camminare, troppo veloce però; la figlia con i tacchi trotterellava per riu¬scire a tenere il suo passo. L’uomo parlava più a se stesso che a lei: «Non pensavo che fosse così stupido, davvero. Perché solo uno stupido poteva comportarsi a quel modo. Quel che spera di ottenere sposandoti non è difficile da capire...».
Tre anni dopo, lei era ormai la signora Rota e l’amicizia tra Campo e Di Giacomo aveva perso il suo smalto, tanto che i due si erano persi di vista; ebbene, Carlotta venne a sapere che una sua compagna di liceo aveva sposato proprio Di Gia¬como, il titolare del maneggio alla Mandria, anzi l’ex titolare, perché la cascina – anche questo le avevano detto – Armando l’aveva venduta.
Nel riferirlo a suo padre, lui aveva chiesto ironico: «È un’a¬mazzone la sposa?».
Carlotta, che non intendeva fare commenti, si era limitata a rispondere: «No, che io sappia».
Il padre aveva fatto una specie di smorfia prima di dire: «Al¬lora è ricca».
Sua figlia, forse per sdrammatizzare, s’era messa a ridere: «È la figlia di un noto penalista».
Senza nemmeno chiedere se Carlotta intendesse continuare a vedere il Festival di Sanremo, lui aveva spento il televisore: «Ah, ho capito, è una del giro degli agnellini e delle pecorelle, quelli che ai concorsi occupano la pedana d’onore».
Carlotta – il Festival non le era mai piaciuto e da un mo¬mento all’altro aspettava Antonio per tornare a casa – ave¬va continuato a ridere: «Stai parlando della creme di Torino papà? Nomi come Agnelli, Montezemolo, Turati, quelli, per capirci?».
C’era stato un silenzio-assenso, tanto che lei aveva aggiunto: «Beh, suo padre è proprio uno d’alto bordo, o almeno credo».
Così alla fine aveva riso anche Alessandro, prima di conclu¬dere: «In fondo non ci ha perso nel cambio».
«Che intendi dire papà? Che tu non lo sei, uno d’alto bordo? O sono io che valgo meno della sposa?».
 
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Enriquez

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Dopo l'more che cosa succede? Ecco come viene presentato nel romanzo.

Amici e amiche, ancora non ho parlato del “dopo”. Ovvero che cosa succede quando l’amore finisce per uno degli amanti?
Ed ecco come presento questo momento in “Tracce invisibili di universi paralleli”.

Un giorno di dicembre 1974: Torino, via Garibaldi

Una povera cartolina di Riva del Garda, in posizione sghemba, occhieggiava dall’anta dell’armadio. Distesa sul letto, continuavo a guardarla. Stavo così almeno da un’ora; ancora non avevo ripreso a fumare, ma l’avrei fatto presto, me lo sentivo.
Francesca era fuori con sua zia; in quei giorni di inerzia totale, non sopportavo nemmeno lei, eppure dovevo lavarla, vestirla, parlarle, darle da mangiare, tutto come prima.
E invece nulla era più come prima.
Non io, legata al telefono come un cane alla catena, con quel vuoto dentro che non mi abbandonava mai; non mia figlia, che sentiva tutto senza capire nulla, che mi supplicava con gli occhi di tornare da lei senza nemmeno rendersene conto; non mia madre, che mi aveva ripreso in casa ma, in realtà, non mi voleva; non mio padre, che adesso mi chiamava “quella puttana”.
Soprattutto Paolo non era più lui. Non che il cambiamento mi avesse sorpreso, perché tra noi ai Santi le cose stavano già mutando. Avevo atteso quei cinque giorni come una bambina aspetta un regalo. Antonio non sarebbe venuto in montagna, faceva parte dei nostri patti; accordi che avrebbe rinnegato a breve, ma io ancora non lo sapevo e nemmeno avevo intenzione di farmi il sangue amaro con sospetti, paure o cose del genere. A contare era solo un fatto: avrei rivisto Paolo, sarei stata di nuovo con lui giorno e notte nella medesima casa, proprio come all’inizio. Solo che adesso lui era un altro.
Arrivai a Courmayeur sperando che fosse già là. Lo aspettai tutto il pomeriggio. Al numero dello chalet il telefono alternava il libero all’occupato, ma lui non rispondeva. Alle 20:00, non potendo più sostenere l’ansia, lo cercai a Genova senza trovarlo: «Aveva un appuntamento con me», dissi, «non vorrei gli fosse successo qualcosa con la macchina».
«Arriverà», mi rispose uno dei suoi fratelli, «tranquilla».
Ma io tranquilla non lo ero per niente. Inconsciamente registravo le differenze; il Paolo che conoscevo era puntuale, anzi arrivava sempre in anticipo e magari questa volta, sapendomi con la bambina e carica di bagagli, mi avrebbe sorpreso facendosi trovare alla stazione. E mettiamo pure che all’ultimo momento ci fossero stati dei problemi, mi avrebbe informata. Prima telefonava nonostante i miei veti; persino a casa dei miei suoceri mi aveva chiamata.
Misi a letto Francesca ed ero in soggiorno quando giunse, prima lontano e poi sempre più nitido, il rumore di un’auto che si avvicinava. Mi affacciai al terrazzo giusto in tempo per vedere la proiezione luminosa dei fari ruotare nel cortiletto prima di spegnersi. Erano le 23:00.
“È qui, Dio sia lodato” dissi a me stessa.
Paolo scese, guardò in alto, mi vide e sorrise: «Uheilà», disse. “Romeo guarda Giulietta sul verone” pensai ironica.
«Sali», mi sentii dire, e il mio era quasi un ordine.
Calma, compassata, ero un’attrice perfetta nel ruolo, quando chiusi la porta-finestra. Qualche secondo dopo – le scale le fece di volata – Paolo mi spingeva contro la porta chiusa, il suo corpo contro il mio: «Questa volta voglio rimanere sino all’ultimo minuto», disse. Per inerzia, continuava a sostenere il ruolo dell’amante che brucia di passione.
Fedele al proposito, se ne andò il primo giorno feriale dopo le feste, alle sei del mattino: «Dovrei farcela ad arrivare puntuale in classe, vado diritto a scuola... non faccio in tempo a passare da casa».
Avevamo passato la notte a fare l’amore; alle tre e mezza lo pregai di dormire un po’: «Almeno un’ora devi chiuderli questi benedetti occhi; guarda che ti servirà».
«E se non mi sveglio?».
Ricordo di aver riso: «Tranquillo ragazzo, che a svegliarti ci penso io».
Prima di partire mi cercò di nuovo, io non aspettavo altro.
Come in un film americano anni Sessanta ci salutammo con una lunga sequenza di ciao. Intanto la mia fotografia più bella era nel bagagliaio della sua macchina. La vidi quando lo aprì: stava insieme a una tanica vuota e a qualcos’altro.
Paolo l’aveva buttata là.
Fu da quel momento che i segni della fine si fecero così evi¬denti, che in nessun modo avrei potuto negarli. Tutto sarebbe finito presto, questo l’avevo messo in conto sin dall’inizio; quel che non sapevo era che non avrei avuto la forza di sopportarlo.
A partire da quel distacco strappalacrime a Courmayeur, il genovese avrebbe cominciato ad allungare gli intervalli tra una visita e l’altra. Diradò sia le lettere, sia le telefonate; silenzi troppo lunghi entrarono a far parte delle nostre conversazioni, ma a segnare il passaggio della nostra storia nella terra
dove finisce tutto ciò che non è più furono due esperienze delle quali – subito – non registrai altro che il presagio di un lutto.
Vedo ancora oggi lo sguardo beffardo di Paolo che regge con una mano il sacco a pelo, mentre con l’altra tiene aperta la guaina di custodia: «Che ti ricorda?», mi chiede.
Ne parlai con Giovanna un anno dopo. Lei trovò la cosa irrilevante: «Tutto qui? Esageri come al solito». Cercò anche di convincermi: «Quando c’è confidenza, si scherza e scherzando si può anche trascendere a volte. Non vuoi mica dirmi che non parlavate mai di sesso?».
Assentii: «Più d’una volta se è per questo e Paolo non usava eufemismi o giri di parole».
Giovanna allora aveva allargato le braccia: «Ma lo vedi che è come dico io!».
Non ero d’accordo, naturalmente, anche se era difficile trasferire un pensiero quando ancora non l’avevo messo in chiaro nemmeno io. Ci provai: «A non piacermi non è stato soltanto l’approccio da caserma, mi stupiva anche la banali¬tà del doppio senso; Paolo non era mai volgare e nemmeno ordinario. Quello che ancora mi domando è perché, a quel punto, mi trattasse come se fossi...».
«Se tu fossi cosa?», mi interruppe «una sciacquetta, il suo compagno di banco, oppure sua moglie? Perché c’è differza, secondo me...».
Non lasciai che concludesse: «No, non è esatto. Quel che ho detto prima, pensandoci bene, non è vero. È al contrario che si deve vedere la cosa. Paolo quella sera mi ha parlato come se io non fossi più... in effetti, per lui, non ero più la stessa. Prima ero l’amore e l’amore si protegge sempre, è proprio questo il punto; e certe parole vengono taciute perché potrebbero sciuparlo».
L’altra esperienza riguarda il grido, un’imprecazione che la paura mi strappò all’ improvviso. Mi vergognavo – dopo – della voce strozzata, tanto simile al verso di un animale braccato.
All’hotel Fiorina non tornammo più; temevo che il genovese non avesse abbastanza denaro per proporlo io, e lui non lo faceva. Più abbordabili erano certamente i motel destinati alle coppie clandestine, ma ammesso che ci ospitassero – difficilmente all’epoca un minorenne poteva permettersi di occupare una doppia per fornicare – nessuno dei due li conosceva. Quella sera, proprio la stessa della performance con il sacco a pelo, un albergo della cintura di Torino ci aveva negato la camera. Non rimaneva che una soluzione: imboscarci sulla collina. Ebbene, trovammo sì un posto, ma era quello sbagliato.
In quel periodo occupava le prime pagine della cronaca nera uno psicopatico che agiva la notte. A generare i crimini ripetuti in luoghi differenti era una costante: il sesso in automobile. Nessuno ancora sapeva chi fosse il serial killer. La polizia supponeva che scegliesse le vittime, studiasse le loro mosse e le freddasse con un doppio sparo di pistola, allorché le sorprendeva in flagrante.
Quando Paolo disse: «Attenta», la sua voce era decisa, alta, ma non sconvolta. Fu questo a mortificarmi dopo: io avevo gridato, non lui.
Paolo – avrei pensato dopo – non era a conoscenza del fatto; oppure aveva notato la divisa d’ordinanza realizzando immediatamente che a sorprenderci era solo un guardiano. Per questo motivo la sua voce prima, e il suo volto dopo, non tradirono nessuna emozione. Rimaneva il fatto, però, che lo sconosciuto ci avesse sorpresi con i sedili ancora abbassati, seminudi entrambi. Ma a essere sconvolta fui soltanto io, che continuavo a gridare mentre la luce della torcia mi percorreva. L’ipotesi, anche a distanza di tempo, rimane la medesima: l’uomo approfittava dello spettacolo che gli concedevo. Anzi, si prendeva un anticipo al piacere di rimproverarci entrambi dall’alto della sua posizione.
«Che fate qui?», chiese – già, perché no non lo sapeva – e aggiunse: «Questa è proprietà privata; vi informo che siete nel parco di una clinica. Andate via subito, sennò chiamo la sicurezza!».
Scendemmo la collina senza parlare.
«Mi sa che torno a Genova», fece Paolo all’ultima curva. D’istinto guardai l’ora: mezzanotte, troppo presto per lasciarci.
«È pericoloso guidare la notte», gli risposi.
Le volte precedenti si era fermato anche la domenica; nella speranza di passare ancora qualche ora con me – non era
affatto certo che potessi vederlo il giorno dopo – era dispo¬sto anche a dormire in macchina, se non trovava qualcosa di meglio.
Mi sarei aspettata gesti consolatori: anche un bambino avrebbe compreso la mia paura, ma non arrivarono. Quel lasciarmi così, senza nemmeno una parola sull’accaduto, mi parve una punizione. Era come se l’incidente non lo riguardasse affatto; come se lui non fosse altro che uno spettatore. Col suo silenzio Paolo trasferiva tutto l’aspetto squallido della faccenda sulla mia persona: ero io, in fin dei conti, l’adultera che se la faceva con un ragazzino. Percepivo tutto questo come un addio che ancora non affiora alla coscienza, soffrivo.
 

Enriquez

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Torino vista dall'autrice di Tracce invisibili di universi paralleli

Amici miei, questa volta – e ancora una volta – vorrei che fosse Torino con le sue gallerie, i portici, i monumenti e soprattutto i suoi caffè, ad essere raccontata attraverso le pagine di “Tracce invisibili di universi paralleli”.


Ecco il negozio di scarpe di fronte all’edicola, ecco la rivedita dei tascabili Feltrinelli e, subito dopo, Mulassano, dove persino i fregi lignei del soffitto o la macchina del caffè raccontavano la storia sabauda, a cominciare dalle guerre napoleoniche.
Quel caffè a ridosso del portico di piazza Castello rappresentava Torino e, secondo Carlotta, era un grazioso simbolo delle virtù e dei vizi della città.
Gli eminenti, le eccellenze, le primedonne che risiedevano nel Quadrilatero a ridosso del Po, si erano seduti almeno una volta a uno dei tavoli – non più di quattro – di Mulassano; personaggi che rappresentavano la cultura del momento, letteratura, teatro, arte, moda, ciascuno a suo modo.
Mulassano tra i suoi clienti vantava i grandi dell’Opera anche se, in realtà, a frequentarlo non erano solo gli artisti del Regio, ma anche quelli del teatro Carignano. Tra di loro – e non era detto che il caffè dovesse venirne a conoscenza, anche se in realtà lo sapevano tutti – c’era chi si faceva d’eroina o di coca.
Non che Carlotta fosse un’habitué del posto, ma il suo qutidiano – a esclusione dei cinque anni di matrimonio – si era sempre dipanato intorno a esso, tanto che lei sentiva i dintorni di Mulassano a naso e avrebbe trovato la strada per arrivarci anche bendata; Palazzo Madama, in prospettiva dalla finestra di casa sua, e a due passi san Lorenzo, che sin da bambina aveva avuto la fortuna di conoscere, ancor prima di sapere cosa fosse il Barocco. E di là, volendo camminare ancora un po’, si arrivava alla cattedrale di san Giovanni, dove Carlotta da ragazzina andava a Messa la domenica; e, sempre in piazza san Giovanni, prendeva il tram per andare a scuola, proprio lì, di fronte agli scavi e ai resti delle Porte Palatine: “Dove mio fratello giocava” pensò. Sì, perché quando arrivava la prima neve, sua madre aveva un bel nascondere le scarpe a Ludovi¬co, ma quel discolo usciva di casa lo stesso. Correva in pantofole nella neve fino alla collinetta dove, presso la statua di Cesare Augusto il terreno formava una montagnola e, dopo nevicate copiose, c’era sempre qualcuno che gli prestava lo slittino.
Carlotta oltrepassò il cinema Romano per entrare in galleria.
“La Galleria Cisalpina riecheggia i padiglioni expo di Parigi”, diceva il suo professore di Storia dell’arte. Ne era già passato di tempo da quando lei andava là con tutta la classe – taccuino e matita – era l’anno della maturità.
Dalla volta in ferro e vetro il suo sguardo scese rapido alla dimensione raccolta e lustra del pianoterra.
Quel giorno, era il 10 dicembre del 1993 (…)
Alessandro Boero la stava aspettando.
Era certa che lo avrebbe trovato già là. Dal suo ufficio, al settimo piano dell’ex torre littoria, l’agente avrebbe impiega¬to poco più di cinque minuti a raggiungere il caffè, corsa in ascensore compresa. Inoltre, per quanto Carlotta non lo conoscesse molto, lo sapeva pronto, addirittura premuroso nei suoi confronti. Gentilezza e comodità a parte, la lusingava pensare che aveva scelto di incontrarla proprio in quel piccolo gioiello di architettura, ornato ad arte come una bomboniera. Vederla da Mulassano e non altrove era un omaggio che Boe¬ro faceva proprio a lei, un architetto.
La prima cosa che si notava entrando nel Caffè era l’agrifoglio all’uscio: la scena era quella di un mattino a pochi giorni da Natale. (…)
Che Mulassano fosse un’opera d’arte lei l’aveva sempre sostenuto, ma quel mattino, per la prima volta, ne godeva appieno l’effetto. Andava da un punto all’altro con lo sguardo, mettendo insieme lo spazio di quel piccolo Caffè attraverso segmenti, rette e curve ribassate. L’architetto che era in lei ripercorreva il progetto. Leggeva il lavoro direttamente dalla sua opera, come fa un musicista quando traduce i suoni nelle note di un pentagramma; le veniva facile e l’aiutava a staccarsi, almeno un momento, da quel presente che la stava mettendo a dura prova.
C’è una sequenza nella logica mirabile di un’opera d’arte, che concorre al raggiungimento di un punto unico, il momento nel quale pittura, scultura e architettura diventano una cosa sola: era quella che Carlotta cercava.
 

Enriquez

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Lo spiritismo è facoltà di ciascuno? Davvero possimo raggiungere chi è andato di là?

Cari amici,
Secondo voi, quanto è successo a Carlotta Campo è credibile? Siccome lei è il mio alter ego, io dico di si e voi?

Da “tracce invisibili di universi paralleli”

Settembre 1971: Pino d’Asti, una seduta spiritica
Ecco l’ultimo tratto di strada asfaltata salire tra i cipressi, ecco il paese acciambellato sotto la collina come un gatto che dorme, il parco, la villa.
Nella memoria di Carlotta si succedevano come diapositive le splendide immagini di un passato recente: il sole filtrato dal fogliame rigoglioso; i colori del paesaggio che la luce cambia¬va a poco a poco; le siepi che stendevano ombre sull’acciottolato bianco; il verde dei prati all’inglese ricoperto, dopo la pioggia, da mille piccole gocce sospese. Alla ragazza sembra¬va di vedere gli zampilli della fontana scintillare come prismi iridati; e i coppi sfumati in lontananza, e ancora più in là i filari dei vigneti.
Era il ricordo di un sereno soggiorno di fine estate a Pino d’Asti. Lunghe e tranquille giornate che si succedevano una uguale all’altra. Vide se stessa studiare nella parte più soleggia¬ta del parco, il capo coperto da un cappello di paglia, distesa su una chaise longue odorosa di canfora.
L’aveva rimediata in solaio, tra i rifiuti dell’arredo domestico. Era in legno, con una leggera imbottitura foderata di velluto.
Nella parte non ancora sbiadita, su un fondo color salmone, spiccavano piccoli fiori in rilievo. Era pesante e lei aveva do¬vuto chiedere aiuto per trasportarla fuori. Non che all’esterno mancasse l’arredo, che non ci fosse dove sedersi, ma quel vec¬chio mobile le permetteva di sollevare il capo quanto bastava per leggere le dispense appoggiate sul grembo.
Da qualche settimana la sua pancia, avvolta dalla stoffa leggera della gonna, sembrava un uovo di pasqua. Era orgoglio¬sa del suo pancione, quanto l’aveva desiderato! Vi poggiava anche un piccolo block-notes e di quando in quando scriveva degli appunti; la mano libera pescava ripetutamente nel cesto al suo fianco. Per tutto il mese di settembre aveva mangiato una quantità industriale di mele verdi; per l’uva, il suo frutto preferito, era ancora troppo presto.
Sì, le date coincidevano. Un fatto e una storia, condotto da Gigi D’Amico, su Rai 1, aveva in argomento la seduta spiritica al castello di Pino d’Asti.
Il 2 settembre 1971, tutto era come da programma. La scena, nel salone principale, preparata secondo gli intenti della regia. Antonio il giorno precedente aveva visto scaricare dai furgoni della Rai, oltre all’attrezzatura tecnica, alcuni oggetti curiosi: civette impagliate, lumi e altri particolari da film dell’orrore.
Quel giorno, il gruppo dei cameraman aveva cominciato le riprese alle dieci di sera. C’erano solo i padroni di casa in villa.
A essere precisi, i coniugi Rota vennero ripresi dalle teleca¬mere nella sala rossa, chiamata così per il pesante damasco a fiori delle pareti, rosso appunto.
In attesa dei primi ospiti risposero alle domande del conduttore, ovvie per la verità.
Tra due alti finestroni troneggiava il mezzo principale di quell’intrattenimento, l’astronave per andare oltre il conosciuto, il corpo del reato, come l’avrebbe chiamato dopo Ludovico. In pratica, quello era il tavolo attorno al quale si sarebbero seduti soltanto coloro che desideravano comunicare con gli spiriti. Di quel pezzo d’antiquariato che i tarli avevano cominciato a consumare, a cominciare da Natale, si era parlato molto in certi ambienti torinesi e non sempre con rispetto.
La prima seduta spiritica fu all’inizio delle feste; quel gioco, inizialmente solo un gioco di società, aveva preso piede tanto che, ultimamente, la scadenza degli incontri con l’aldilà era divenuta settimanale.
C’era chi aveva consigliato di lasciar perdere; non andava bene cincischiare con certe faccende, avrebbero potuto dive¬nire pericolose. Eppure, un po’ per la strafottenza giovanile del gruppo, un po’ per l’immancabile curiosità sui fatti occulti, ma soprattutto per l’atmosfera che si respirava a Torino, città magica, le cose avevano continuato il loro corso.
Ebbene, proprio attorno a quel tavolo del sedicesimo secolo qualcuno ne aveva già viste delle belle. Più o meno questo sta¬vano dicendo al conduttore i due sposi; due ragazzi che, per somma di età, non arrivano a cinquant’anni. Carlotta, soprat¬tutto, si sentiva emozionata. Stava per comunicare al mondo che, fra poche ore, si sarebbe di nuovo formata la catena. E, benché l’avessero rassicurata dicendole dove guardare e che cosa fare, aveva i movimenti legati dall’ansia.
«Stia tranquilla signora», disse di nuovo Gigi D’amico. «La trasmissione non è in diretta, i telespettatori vedranno tutto dopo, a cose fatte».
Eppure non le riusciva di lasciarsi andare e di essere spontanea come le consigliava la regia.
«Si è manifestato uno spirito guida?», stava chiedendo in quel momento il conduttore.
«Sì, due volte», rispondeva Antonio, «ma non ci è dato sape¬re chi egli sia, nessuna identità dichiarata».
“Che linguaggio forbito! Non sarà una sindrome da palco¬scenico?” fu il pensiero di Carlotta; e da quel momento si sentì più tranquilla: mal comune mezzo gaudio.
Le riprese continuarono all’arrivo degli ospiti; ma i tecnici svolgevano il lavoro con la massima discrezione possibile, quasi fossero in Vaticano. La seduta era preceduta da un ricevimento e il catering, anche quella volta, se lo era aggiudicato Baratti.
Ogni tanto un cameriere, o un cameraman, cercava la si¬gnora Rota per chiedere il permesso di fare questa o quella cosa. Lei, che si era già programmata per l’esigenza, a ciascuno rispondeva: «Faccia pure», senza nemmeno darsi la pena di intendere la portata della richiesta.
L’evocazione degli spiriti era un fatto strettamente riservato e naturalmente non compariva nell’invito dove invece era inserita, oltre alla data e all’ora del ricevimento, una sorta di mappa per raggiungere Pino d’Asti e la villa.
Più d’una volta, infatti, Tizio e Caio e anche Sempronio si erano persi nella campagna astigiana e avevano telefonato a turno. Alcuni, per non dire molti dei presenti in villa, erano corsi al telefono in una gara di consigli sulla migliore naviga¬zione da compiere.
Quella sera invece erano arrivati tutti senza incidenti, anche quelli che non avrebbero dovuto esserci. In pratica pettegoli e maldicenti erano presenti in forze.
A Carlotta vennero presentati alcuni nuovi convenuti.
«Gente famosa», le anticipò il marito. Non ebbe modo di parlare con tutte le persone che non conosceva, notò comun¬que che ciascuno aveva quello che i francesi chiamano le physi¬que du rôl. C’era il critico, lo scrittore, l’artista in generale, il cultore di arte occulta... Tutti vagavano per le sale dandosi un gran da fare. Chi continuava a guardarsi attorno nel cercar qualcuno o qualcosa che non trovava, chi osservava con l’aria da intenditore le grandi tele appese alle pareti. C’era, natural¬mente, chi salutava chi, il quale con una leggera flessione del busto rispondeva a distanza.
Le signore, tutte giovani – solo qualcuna aveva passato i quaranta – erano in abito lungo e offrivano ora la mano ingio¬iellata, ora le guance profumate per il bacio di rito, a seconda del caso.
Carlotta vide spesso, sia nei gesti che nell’espressione dei volti, una sorta di ironica complicità e si chiese se, veramente, gli uni e gli altri si conoscessero al punto da scambiarsi battute sagaci o se stessero semplicemente recitando a soggetto.
Vide Shamanta, discreta e impeccabile nella sua bellezza perfetta, intenta ad ascoltare un allampanato giovane che parlava mangiandola con gli occhi e chiedendosi, forse, in quale modo avrebbe potuto toccarla con classe.
La luce dei grandi lampadari in cristallo illuminava gli affre¬73
schi rarefatti e sbiaditi dal tempo. Luce bianca e trasparente che, esaltando il disegno delle volte a crociera, ne prendeva il colore per uscire all’esterno, sul piazzale. E degradava nel parco disegnando ombre multiformi, perdendosi negli aromi della notte settembrina.
La gente si muoveva dentro e fuori le sale creando uno sfondo variegato: modelle che sorridevano sotto i riflettori; uomini d’affari in abito scuro che bevevano Black&White o si ingozzavano di saint-honoré tenendo d’occhio la continua parata delle belle figliole; fanatici che – impegnati nell’esposi¬zione del solito chiodo fisso, sempre quello, al malcapitato di turno – fornivano ottima preda ai curiosi. C’erano anche gli arrampicatori sociali e gli imbucati di turno, mimetizzati nella macchia umana di quel carnevale mondano, pronti a entrare di soppiatto nel giro più interessante.
Tutti sapevano tutto di quella serata e si sentivano eccitati di prender parte alla vicenda misteriosa e intrigante che li aveva portati fin là. Ciononostante, si comportavano col sussiego degno di un funerale di lusso. Le strette di mano, le chiac¬chiere, i sorrisi e gli ammiccamenti erano in sordina e con ge¬sti misurati, perché, perbacco, se al castello c’erano gli spiriti, sempre di morti si trattava e occorreva il dovuto rispetto.
Chi non partecipava alla catena poteva assistere. L’atmosfera era rovente. Astanti e partecipanti attendevano emozioni trascendenti; comunque oltre il consueto.
Carlotta, per adeguarsi all’evento, sfoggiava un abito nero tipo famiglia Addams e si sentiva la castellana di un maniero come quello del dottor Frankenstein. Era la prima attrice, accidenti! Gli “addetti ai lavori” l’avevano preparata alla parte. In realtà, sfumato l’entusiasmo del momento, la ragazza aveva concluso che l’aiuto regista si sentiva in obbligo di affidarle un ruolo; dopotutto, le riprese venivano fatte in casa sua. Tutto si concludeva sempre con una frase: «Stia tranquilla signora! Faccia come se noi non ci fossimo». E così aveva fatto. Si era seduta come le altre volte attorno a quel pesante tavolo, senza lasciarsi coinvolgere, anzi. Eccola con le mani nella posizione di rito, tra marito e fratello.
Quella sera, a dispetto della regia, delle riprese e di tanta
gente eccitata, non successe un bel niente. Non ci furono manifestazioni extrasensoriali e al fatidico: «Se ci sei batti un colpo», nessuno rispose. Tutti si sarebbero chiesti, dopo, cosa diavolo avrebbe architettato il regista per mandare in onda il filmato.
Ma quando ancora non si era sciolta la catena, la giovane padrona di casa, stanca per aver condotto un compito incon¬sueto al quinto mese di gravidanza e – diciamolo pure –scettica, stava per addormentarsi. Ed ecco che, in modo chiaro e inequivocabile, qualcosa si mosse. Il rumore proveniva dal piano di sopra, in corrispondenza delle camere da letto, di¬stinto, definito. Sembrava che stessero spostando dei mobili. Il coccolone ebbe fine all’improvviso per lasciare il posto a un sinistro batticuore; un brivido corse serpeggiando lungo la schiena di Carlotta.
Alla villa, a parte gli ospiti, lo staff televisivo e quelli di Baratti, non c’era nessuno. I suoi nonni – li aveva sentiti nel po¬meriggio – aspettavano Antonio per raggiungerla e sarebbero arrivati solo il giorno dopo.
Si rivolse al marito: «Chi è salito di sopra, qualcuno dei tecnici?».
«Sopra non c’è nessuno, te lo posso assicurare, ho io le chiavi d’accesso al corridoio».
Annuì con il capo. Non le era concesso di continuare a par¬lare e non poteva insistere, non poteva nemmeno chiedere se anche lui avesse sentito quel rumore.
Come era possibile, si sarebbe domandata dopo, che nessuno avesse sentito nulla, nemmeno suo fratello? Era dunque l’unica? Neanche una persona tra centinaia di presenti. Perché lei, allora? Ammesso che fosse suggestione, che si trattasse di quel sentimento che fa credere in ciò che in realtà non esiste, fino a prova contraria la suggestione si accompagna alla ten¬sione, non al sonno. Ma lei, invece, al momento del rumore sinistro, era preda di un sonno terribile e avrebbe dovuto es¬sere tesa come una corda. Che avesse le traveggole?
Comunque, rimase alla villa. Lo aveva già deciso.
 

Enriquez

Member
Possiamo comunicare davvero con gli spiriti ?

Cari amici,
Secondo voi, quanto è successo a Carlotta Campo è credibile? Siccome lei è il mio alter ego, io dico di si e voi?

Da “tracce invisibili di universi paralleli”

Settembre 1971: Pino d’Asti, una seduta spiritica
Ecco l’ultimo tratto di strada asfaltata salire tra i cipressi, ecco il paese acciambellato sotto la collina come un gatto che dorme, il parco, la villa.
Nella memoria di Carlotta si succedevano come diapositive le splendide immagini di un passato recente: il sole filtrato dal fogliame rigoglioso; i colori del paesaggio che la luce cambia¬va a poco a poco; le siepi che stendevano ombre sull’acciot¬tolato bianco; il verde dei prati all’inglese ricoperto, dopo la pioggia, da mille piccole gocce sospese. Alla ragazza sembra¬va di vedere gli zampilli della fontana scintillare come prismi iridati; e i coppi sfumati in lontananza, e ancora più in là i filari dei vigneti.
Era il ricordo di un sereno soggiorno di fine estate a Pino d’Asti. Lunghe e tranquille giornate che si succedevano una uguale all’altra. Vide se stessa studiare nella parte più soleggia¬ta del parco, il capo coperto da un cappello di paglia, distesa su una chaise longue odorosa di canfora.
L’aveva rimediata in solaio, tra i rifiuti dell’arredo domestico. Era in legno, con una leggera imbottitura foderata di velluto.
Nella parte non ancora sbiadita, su un fondo color salmone, spiccavano piccoli fiori in rilievo. Era pesante e lei aveva do¬vuto chiedere aiuto per trasportarla fuori. Non che all’esterno mancasse l’arredo, che non ci fosse dove sedersi, ma quel vec¬chio mobile le permetteva di sollevare il capo quanto bastava per leggere le dispense appoggiate sul grembo.
Da qualche settimana la sua pancia, avvolta dalla stoffa leg¬gera della gonna, sembrava un uovo di pasqua. Era orgoglio¬sa del suo pancione, quanto l’aveva desiderato! Vi poggiava anche un piccolo block-notes e di quando in quando scriveva degli appunti; la mano libera pescava ripetutamente nel cesto al suo fianco. Per tutto il mese di settembre aveva mangiato una quantità industriale di mele verdi; per l’uva, il suo frutto preferito, era ancora troppo presto.
Sì, le date coincidevano. Un fatto e una storia, condotto da Gigi D’Amico, su Rai 1, aveva in argomento la seduta spiritica al castello di Pino d’Asti.
Il 2 settembre 1971, tutto era come da programma. La scena, nel salone principale, preparata secondo gli intenti della regia. Antonio il giorno precedente aveva visto scaricare dai furgoni della Rai, oltre all’attrezzatura tecnica, alcuni oggetti curiosi: civette impagliate, lumi e altri particolari da film dell’orrore.
Quel giorno, il gruppo dei cameraman aveva cominciato le riprese alle dieci di sera. C’erano solo i padroni di casa in villa.
A essere precisi, i coniugi Rota vennero ripresi dalle teleca¬mere nella sala rossa, chiamata così per il pesante damasco a fiori delle pareti, rosso appunto.
In attesa dei primi ospiti risposero alle domande del condut¬tore, ovvie per la verità.
Tra due alti finestroni troneggiava il mezzo principale di quell’intrattenimento, l’astronave per andare oltre il conosciu¬to, il corpo del reato, come l’avrebbe chiamato dopo Ludovico. In pratica, quello era il tavolo attorno al quale si sarebbero seduti soltanto coloro che desideravano comunicare con gli spiriti. Di quel pezzo d’antiquariato che i tarli avevano co¬minciato a consumare, a cominciare da Natale, si era parlato molto in certi ambienti torinesi e non sempre con rispetto.
La prima seduta spiritica fu all’inizio delle feste; quel gioco, inizialmente solo un gioco di società, aveva preso piede tanto che, ultimamente, la scadenza degli incontri con l’aldilà era divenuta settimanale.
C’era chi aveva consigliato di lasciar perdere; non andava bene cincischiare con certe faccende, avrebbero potuto dive¬nire pericolose. Eppure, un po’ per la strafottenza giovanile del gruppo, un po’ per l’immancabile curiosità sui fatti occulti, ma soprattutto per l’atmosfera che si respirava a Torino, città magica, le cose avevano continuato il loro corso.
Ebbene, proprio attorno a quel tavolo del sedicesimo secolo qualcuno ne aveva già viste delle belle. Più o meno questo sta¬vano dicendo al conduttore i due sposi; due ragazzi che, per somma di età, non arrivano a cinquant’anni. Carlotta, soprat¬tutto, si sentiva emozionata. Stava per comunicare al mondo che, fra poche ore, si sarebbe di nuovo formata la catena. E, benché l’avessero rassicurata dicendole dove guardare e che cosa fare, aveva i movimenti legati dall’ansia.
«Stia tranquilla signora», disse di nuovo Gigi D’amico. «La trasmissione non è in diretta, i telespettatori vedranno tutto dopo, a cose fatte».
Eppure non le riusciva di lasciarsi andare e di essere sponta¬nea come le consigliava la regia.
«Si è manifestato uno spirito guida?», stava chiedendo in quel momento il conduttore.
«Sì, due volte», rispondeva Antonio, «ma non ci è dato sape¬re chi egli sia, nessuna identità dichiarata».
“Che linguaggio forbito! Non sarà una sindrome da palco¬scenico?” fu il pensiero di Carlotta; e da quel momento si sentì più tranquilla: mal comune mezzo gaudio.
Le riprese continuarono all’arrivo degli ospiti; ma i tecni¬ci svolgevano il lavoro con la massima discrezione possibile, quasi fossero in Vaticano. La seduta era preceduta da un rice¬vimento e il catering, anche quella volta, se lo era aggiudicato Baratti.
Ogni tanto un cameriere, o un cameraman, cercava la si¬gnora Rota per chiedere il permesso di fare questa o quella cosa. Lei, che si era già programmata per l’esigenza, a ciascu¬
no rispondeva: «Faccia pure», senza nemmeno darsi la pena di intendere la portata della richiesta.
L’evocazione degli spiriti era un fatto strettamente riserva¬to e naturalmente non compariva nell’invito dove invece era inserita, oltre alla data e all’ora del ricevimento, una sorta di mappa per raggiungere Pino d’Asti e la villa.
Più d’una volta, infatti, Tizio e Caio e anche Sempronio si erano persi nella campagna astigiana e avevano telefonato a turno. Alcuni, per non dire molti dei presenti in villa, erano corsi al telefono in una gara di consigli sulla migliore naviga¬zione da compiere.
Quella sera invece erano arrivati tutti senza incidenti, anche quelli che non avrebbero dovuto esserci. In pratica pettegoli e maldicenti erano presenti in forze.
A Carlotta vennero presentati alcuni nuovi convenuti.
«Gente famosa», le anticipò il marito. Non ebbe modo di parlare con tutte le persone che non conosceva, notò comun¬que che ciascuno aveva quello che i francesi chiamano le physi¬que du rôl. C’era il critico, lo scrittore, l’artista in generale, il cultore di arte occulta... Tutti vagavano per le sale dandosi un gran da fare. Chi continuava a guardarsi attorno nel cercar qualcuno o qualcosa che non trovava, chi osservava con l’aria da intenditore le grandi tele appese alle pareti. C’era, natural¬mente, chi salutava chi, il quale con una leggera flessione del busto rispondeva a distanza.
Le signore, tutte giovani – solo qualcuna aveva passato i quaranta – erano in abito lungo e offrivano ora la mano ingio¬iellata, ora le guance profumate per il bacio di rito, a seconda del caso.
Carlotta vide spesso, sia nei gesti che nell’espressione dei volti, una sorta di ironica complicità e si chiese se, veramente, gli uni e gli altri si conoscessero al punto da scambiarsi battute sagaci o se stessero semplicemente recitando a soggetto.
Vide Shamanta, discreta e impeccabile nella sua bellezza perfetta, intenta ad ascoltare un allampanato giovane che par¬lava mangiandola con gli occhi e chiedendosi, forse, in quale modo avrebbe potuto toccarla con classe.
La luce dei grandi lampadari in cristallo illuminava gli affre¬73
schi rarefatti e sbiaditi dal tempo. Luce bianca e trasparente che, esaltando il disegno delle volte a crociera, ne prendeva il colore per uscire all’esterno, sul piazzale. E degradava nel parco disegnando ombre multiformi, perdendosi negli aromi della notte settembrina.
La gente si muoveva dentro e fuori le sale creando uno sfondo variegato: modelle che sorridevano sotto i riflettori; uomini d’affari in abito scuro che bevevano Black&White o si ingozzavano di saint-honoré tenendo d’occhio la continua parata delle belle figliole; fanatici che – impegnati nell’esposi¬zione del solito chiodo fisso, sempre quello, al malcapitato di turno – fornivano ottima preda ai curiosi. C’erano anche gli arrampicatori sociali e gli imbucati di turno, mimetizzati nella macchia umana di quel carnevale mondano, pronti a entrare di soppiatto nel giro più interessante.
Tutti sapevano tutto di quella serata e si sentivano eccitati di prender parte alla vicenda misteriosa e intrigante che li aveva portati fin là. Ciononostante, si comportavano col sussiego degno di un funerale di lusso. Le strette di mano, le chiac¬chiere, i sorrisi e gli ammiccamenti erano in sordina e con ge¬sti misurati, perché, perbacco, se al castello c’erano gli spiriti, sempre di morti si trattava e occorreva il dovuto rispetto.
Chi non partecipava alla catena poteva assistere. L’atmosfe¬ra era rovente. Astanti e partecipanti attendevano emozioni trascendenti; comunque oltre il consueto.
Carlotta, per adeguarsi all’evento, sfoggiava un abito nero tipo famiglia Addams e si sentiva la castellana di un maniero come quello del dottor Frankenstein. Era la prima attrice, ac¬cidenti! Gli “addetti ai lavori” l’avevano preparata alla parte. In realtà, sfumato l’entusiasmo del momento, la ragazza aveva concluso che l’aiuto regista si sentiva in obbligo di affidarle un ruolo; dopotutto, le riprese venivano fatte in casa sua. Tutto si concludeva sempre con una frase: «Stia tranquilla signora! Faccia come se noi non ci fossimo». E così aveva fatto. Si era seduta come le altre volte attorno a quel pesante tavolo, senza lasciarsi coinvolgere, anzi. Eccola con le mani nella posizione di rito, tra marito e fratello.
Quella sera, a dispetto della regia, delle riprese e di tanta
gente eccitata, non successe un bel niente. Non ci furono manifestazioni extrasensoriali e al fatidico: «Se ci sei batti un colpo», nessuno rispose. Tutti si sarebbero chiesti, dopo, cosa diavolo avrebbe architettato il regista per mandare in onda il filmato.
Ma quando ancora non si era sciolta la catena, la giovane padrona di casa, stanca per aver condotto un compito incon¬sueto al quinto mese di gravidanza e – diciamolo pure –scet¬tica, stava per addormentarsi. Ed ecco che, in modo chiaro e inequivocabile, qualcosa si mosse. Il rumore proveniva dal piano di sopra, in corrispondenza delle camere da letto, di¬stinto, definito. Sembrava che stessero spostando dei mobili. Il coccolone ebbe fine all’improvviso per lasciare il posto a un sinistro batticuore; un brivido corse serpeggiando lungo la schiena di Carlotta.
Alla villa, a parte gli ospiti, lo staff televisivo e quelli di Ba¬ratti, non c’era nessuno. I suoi nonni – li aveva sentiti nel po¬meriggio – aspettavano Antonio per raggiungerla e sarebbero arrivati solo il giorno dopo.
Si rivolse al marito: «Chi è salito di sopra, qualcuno dei tec¬nici?».
«Sopra non c’è nessuno, te lo posso assicurare, ho io le chia¬vi d’accesso al corridoio».
Annuì con il capo. Non le era concesso di continuare a par¬lare e non poteva insistere, non poteva nemmeno chiedere se anche lui avesse sentito quel rumore.
Come era possibile, si sarebbe domandata dopo, che nessu¬no avesse sentito nulla, nemmeno suo fratello? Era dunque l’unica? Neanche una persona tra centinaia di presenti. Perché lei, allora? Ammesso che fosse suggestione, che si trattasse di quel sentimento che fa credere in ciò che in realtà non esiste, fino a prova contraria la suggestione si accompagna alla ten¬sione, non al sonno. Ma lei, invece, al momento del rumore sinistro, era preda di un sonno terribile e avrebbe dovuto es¬sere tesa come una corda. Che avesse le traveggole?
Comunque, rimase alla villa. Lo aveva già deciso.
 

GermanoDalcielo

Scrittore & Vulca-Mod
Membro dello Staff
Enrichetta ciao, ti ho spostato i nuovi thread in questo tuo personale da autrice. Da regolamento ne è consentito solo uno per libro o titolo
 
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