Lo spiritismo è facoltà di ciascuno? Davvero possimo raggiungere chi è andato di là?
Cari amici,
Secondo voi, quanto è successo a Carlotta Campo è credibile? Siccome lei è il mio alter ego, io dico di si e voi?
Da “tracce invisibili di universi paralleli”
Settembre 1971: Pino d’Asti, una seduta spiritica
Ecco l’ultimo tratto di strada asfaltata salire tra i cipressi, ecco il paese acciambellato sotto la collina come un gatto che dorme, il parco, la villa.
Nella memoria di Carlotta si succedevano come diapositive le splendide immagini di un passato recente: il sole filtrato dal fogliame rigoglioso; i colori del paesaggio che la luce cambia¬va a poco a poco; le siepi che stendevano ombre sull’acciottolato bianco; il verde dei prati all’inglese ricoperto, dopo la pioggia, da mille piccole gocce sospese. Alla ragazza sembra¬va di vedere gli zampilli della fontana scintillare come prismi iridati; e i coppi sfumati in lontananza, e ancora più in là i filari dei vigneti.
Era il ricordo di un sereno soggiorno di fine estate a Pino d’Asti. Lunghe e tranquille giornate che si succedevano una uguale all’altra. Vide se stessa studiare nella parte più soleggia¬ta del parco, il capo coperto da un cappello di paglia, distesa su una chaise longue odorosa di canfora.
L’aveva rimediata in solaio, tra i rifiuti dell’arredo domestico. Era in legno, con una leggera imbottitura foderata di velluto.
Nella parte non ancora sbiadita, su un fondo color salmone, spiccavano piccoli fiori in rilievo. Era pesante e lei aveva do¬vuto chiedere aiuto per trasportarla fuori. Non che all’esterno mancasse l’arredo, che non ci fosse dove sedersi, ma quel vec¬chio mobile le permetteva di sollevare il capo quanto bastava per leggere le dispense appoggiate sul grembo.
Da qualche settimana la sua pancia, avvolta dalla stoffa leggera della gonna, sembrava un uovo di pasqua. Era orgoglio¬sa del suo pancione, quanto l’aveva desiderato! Vi poggiava anche un piccolo block-notes e di quando in quando scriveva degli appunti; la mano libera pescava ripetutamente nel cesto al suo fianco. Per tutto il mese di settembre aveva mangiato una quantità industriale di mele verdi; per l’uva, il suo frutto preferito, era ancora troppo presto.
Sì, le date coincidevano. Un fatto e una storia, condotto da Gigi D’Amico, su Rai 1, aveva in argomento la seduta spiritica al castello di Pino d’Asti.
Il 2 settembre 1971, tutto era come da programma. La scena, nel salone principale, preparata secondo gli intenti della regia. Antonio il giorno precedente aveva visto scaricare dai furgoni della Rai, oltre all’attrezzatura tecnica, alcuni oggetti curiosi: civette impagliate, lumi e altri particolari da film dell’orrore.
Quel giorno, il gruppo dei cameraman aveva cominciato le riprese alle dieci di sera. C’erano solo i padroni di casa in villa.
A essere precisi, i coniugi Rota vennero ripresi dalle teleca¬mere nella sala rossa, chiamata così per il pesante damasco a fiori delle pareti, rosso appunto.
In attesa dei primi ospiti risposero alle domande del conduttore, ovvie per la verità.
Tra due alti finestroni troneggiava il mezzo principale di quell’intrattenimento, l’astronave per andare oltre il conosciuto, il corpo del reato, come l’avrebbe chiamato dopo Ludovico. In pratica, quello era il tavolo attorno al quale si sarebbero seduti soltanto coloro che desideravano comunicare con gli spiriti. Di quel pezzo d’antiquariato che i tarli avevano cominciato a consumare, a cominciare da Natale, si era parlato molto in certi ambienti torinesi e non sempre con rispetto.
La prima seduta spiritica fu all’inizio delle feste; quel gioco, inizialmente solo un gioco di società, aveva preso piede tanto che, ultimamente, la scadenza degli incontri con l’aldilà era divenuta settimanale.
C’era chi aveva consigliato di lasciar perdere; non andava bene cincischiare con certe faccende, avrebbero potuto dive¬nire pericolose. Eppure, un po’ per la strafottenza giovanile del gruppo, un po’ per l’immancabile curiosità sui fatti occulti, ma soprattutto per l’atmosfera che si respirava a Torino, città magica, le cose avevano continuato il loro corso.
Ebbene, proprio attorno a quel tavolo del sedicesimo secolo qualcuno ne aveva già viste delle belle. Più o meno questo sta¬vano dicendo al conduttore i due sposi; due ragazzi che, per somma di età, non arrivano a cinquant’anni. Carlotta, soprat¬tutto, si sentiva emozionata. Stava per comunicare al mondo che, fra poche ore, si sarebbe di nuovo formata la catena. E, benché l’avessero rassicurata dicendole dove guardare e che cosa fare, aveva i movimenti legati dall’ansia.
«Stia tranquilla signora», disse di nuovo Gigi D’amico. «La trasmissione non è in diretta, i telespettatori vedranno tutto dopo, a cose fatte».
Eppure non le riusciva di lasciarsi andare e di essere spontanea come le consigliava la regia.
«Si è manifestato uno spirito guida?», stava chiedendo in quel momento il conduttore.
«Sì, due volte», rispondeva Antonio, «ma non ci è dato sape¬re chi egli sia, nessuna identità dichiarata».
“Che linguaggio forbito! Non sarà una sindrome da palco¬scenico?” fu il pensiero di Carlotta; e da quel momento si sentì più tranquilla: mal comune mezzo gaudio.
Le riprese continuarono all’arrivo degli ospiti; ma i tecnici svolgevano il lavoro con la massima discrezione possibile, quasi fossero in Vaticano. La seduta era preceduta da un ricevimento e il catering, anche quella volta, se lo era aggiudicato Baratti.
Ogni tanto un cameriere, o un cameraman, cercava la si¬gnora Rota per chiedere il permesso di fare questa o quella cosa. Lei, che si era già programmata per l’esigenza, a ciascuno rispondeva: «Faccia pure», senza nemmeno darsi la pena di intendere la portata della richiesta.
L’evocazione degli spiriti era un fatto strettamente riservato e naturalmente non compariva nell’invito dove invece era inserita, oltre alla data e all’ora del ricevimento, una sorta di mappa per raggiungere Pino d’Asti e la villa.
Più d’una volta, infatti, Tizio e Caio e anche Sempronio si erano persi nella campagna astigiana e avevano telefonato a turno. Alcuni, per non dire molti dei presenti in villa, erano corsi al telefono in una gara di consigli sulla migliore naviga¬zione da compiere.
Quella sera invece erano arrivati tutti senza incidenti, anche quelli che non avrebbero dovuto esserci. In pratica pettegoli e maldicenti erano presenti in forze.
A Carlotta vennero presentati alcuni nuovi convenuti.
«Gente famosa», le anticipò il marito. Non ebbe modo di parlare con tutte le persone che non conosceva, notò comun¬que che ciascuno aveva quello che i francesi chiamano le physi¬que du rôl. C’era il critico, lo scrittore, l’artista in generale, il cultore di arte occulta... Tutti vagavano per le sale dandosi un gran da fare. Chi continuava a guardarsi attorno nel cercar qualcuno o qualcosa che non trovava, chi osservava con l’aria da intenditore le grandi tele appese alle pareti. C’era, natural¬mente, chi salutava chi, il quale con una leggera flessione del busto rispondeva a distanza.
Le signore, tutte giovani – solo qualcuna aveva passato i quaranta – erano in abito lungo e offrivano ora la mano ingio¬iellata, ora le guance profumate per il bacio di rito, a seconda del caso.
Carlotta vide spesso, sia nei gesti che nell’espressione dei volti, una sorta di ironica complicità e si chiese se, veramente, gli uni e gli altri si conoscessero al punto da scambiarsi battute sagaci o se stessero semplicemente recitando a soggetto.
Vide Shamanta, discreta e impeccabile nella sua bellezza perfetta, intenta ad ascoltare un allampanato giovane che parlava mangiandola con gli occhi e chiedendosi, forse, in quale modo avrebbe potuto toccarla con classe.
La luce dei grandi lampadari in cristallo illuminava gli affre¬73
schi rarefatti e sbiaditi dal tempo. Luce bianca e trasparente che, esaltando il disegno delle volte a crociera, ne prendeva il colore per uscire all’esterno, sul piazzale. E degradava nel parco disegnando ombre multiformi, perdendosi negli aromi della notte settembrina.
La gente si muoveva dentro e fuori le sale creando uno sfondo variegato: modelle che sorridevano sotto i riflettori; uomini d’affari in abito scuro che bevevano Black&White o si ingozzavano di saint-honoré tenendo d’occhio la continua parata delle belle figliole; fanatici che – impegnati nell’esposi¬zione del solito chiodo fisso, sempre quello, al malcapitato di turno – fornivano ottima preda ai curiosi. C’erano anche gli arrampicatori sociali e gli imbucati di turno, mimetizzati nella macchia umana di quel carnevale mondano, pronti a entrare di soppiatto nel giro più interessante.
Tutti sapevano tutto di quella serata e si sentivano eccitati di prender parte alla vicenda misteriosa e intrigante che li aveva portati fin là. Ciononostante, si comportavano col sussiego degno di un funerale di lusso. Le strette di mano, le chiac¬chiere, i sorrisi e gli ammiccamenti erano in sordina e con ge¬sti misurati, perché, perbacco, se al castello c’erano gli spiriti, sempre di morti si trattava e occorreva il dovuto rispetto.
Chi non partecipava alla catena poteva assistere. L’atmosfera era rovente. Astanti e partecipanti attendevano emozioni trascendenti; comunque oltre il consueto.
Carlotta, per adeguarsi all’evento, sfoggiava un abito nero tipo famiglia Addams e si sentiva la castellana di un maniero come quello del dottor Frankenstein. Era la prima attrice, accidenti! Gli “addetti ai lavori” l’avevano preparata alla parte. In realtà, sfumato l’entusiasmo del momento, la ragazza aveva concluso che l’aiuto regista si sentiva in obbligo di affidarle un ruolo; dopotutto, le riprese venivano fatte in casa sua. Tutto si concludeva sempre con una frase: «Stia tranquilla signora! Faccia come se noi non ci fossimo». E così aveva fatto. Si era seduta come le altre volte attorno a quel pesante tavolo, senza lasciarsi coinvolgere, anzi. Eccola con le mani nella posizione di rito, tra marito e fratello.
Quella sera, a dispetto della regia, delle riprese e di tanta
gente eccitata, non successe un bel niente. Non ci furono manifestazioni extrasensoriali e al fatidico: «Se ci sei batti un colpo», nessuno rispose. Tutti si sarebbero chiesti, dopo, cosa diavolo avrebbe architettato il regista per mandare in onda il filmato.
Ma quando ancora non si era sciolta la catena, la giovane padrona di casa, stanca per aver condotto un compito incon¬sueto al quinto mese di gravidanza e – diciamolo pure –scettica, stava per addormentarsi. Ed ecco che, in modo chiaro e inequivocabile, qualcosa si mosse. Il rumore proveniva dal piano di sopra, in corrispondenza delle camere da letto, di¬stinto, definito. Sembrava che stessero spostando dei mobili. Il coccolone ebbe fine all’improvviso per lasciare il posto a un sinistro batticuore; un brivido corse serpeggiando lungo la schiena di Carlotta.
Alla villa, a parte gli ospiti, lo staff televisivo e quelli di Baratti, non c’era nessuno. I suoi nonni – li aveva sentiti nel po¬meriggio – aspettavano Antonio per raggiungerla e sarebbero arrivati solo il giorno dopo.
Si rivolse al marito: «Chi è salito di sopra, qualcuno dei tecnici?».
«Sopra non c’è nessuno, te lo posso assicurare, ho io le chiavi d’accesso al corridoio».
Annuì con il capo. Non le era concesso di continuare a par¬lare e non poteva insistere, non poteva nemmeno chiedere se anche lui avesse sentito quel rumore.
Come era possibile, si sarebbe domandata dopo, che nessuno avesse sentito nulla, nemmeno suo fratello? Era dunque l’unica? Neanche una persona tra centinaia di presenti. Perché lei, allora? Ammesso che fosse suggestione, che si trattasse di quel sentimento che fa credere in ciò che in realtà non esiste, fino a prova contraria la suggestione si accompagna alla ten¬sione, non al sonno. Ma lei, invece, al momento del rumore sinistro, era preda di un sonno terribile e avrebbe dovuto es¬sere tesa come una corda. Che avesse le traveggole?
Comunque, rimase alla villa. Lo aveva già deciso.