Jessamine
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Solo la letteratura può restituire un senso alle nostre vite confuse e sghembe. Anzi, la letteratura è il solo specchio dentro cui la vita, riflettendosi, giunge per un momento a dire se stessa. È l'idea centrale di questo romanzo. Tre donne lo abitano. La prima è una donna famosa, una scrittrice famosa: Virginia Woolf, ritratta a un passo dal suicidio, nel 1941, e poi, a ritroso nel tempo, mentre gioca col dèmone della sua scrittura. Le altre due sono donne che abitano luoghi e tempi diversi. Clarissa Vaughan, un editor newyorkese di oggi e Laura Brown, una casalinga californiana dell'immediato dopoguerra.*
Ho letto questo piccolo e denso romanzo come un grande, grande omaggio ad una donna che nell’ultimo periodo si sta scavando inesorabilmente uno spazio privilegiato fra i miei autori preferiti: Virginia Woolf. Ed è ovvio che un omaggio a qualcosa che io per prima apprezzo fortemente non può che risultare qualcosa di positivo, di apprezzabile a priori. E di Virginia, in queste brevi pagine, c’è veramente tanto. Troppo, forse, mi verrebbe da dire. Virginia Woolf è una presenza tanto possente da diventare quasi ingombrante, da troneggiare e mettere in ombra il talento di Cunningham, che certamente non si può negare.
“Le ore”, titolo che Virginia avrebbe voluto dare a quello che poi sarebbe diventato “La signora Dalloway”, altro non è che “La signora Dalloway” moltiplicata per tre. Ci sono tre donne, tre voci fragili e magistralmente cesellate, lontane nel tempo e nello spazio e legate soltanto da un sordo dolore e dall’eco delle parole di Virginia. Proprio come ne “La signora Dalloway”, Cunningham cerca (e forse ci riesce, a pensarci bene) di tratteggiare il ritratto a tutto tondo di tre donne, descrivendo le ore di una sola, semplice giornata. Le voci di Virginia, Laura e Clarissa si sovrappongono in un coro sommesso ma dotato di una forza straordinaria, capace di far vacillare il lettore. C’è delicatezza e rispetto, tra le righe di Cunningham, e le donne che animano – che letteralmente si fanno anima – questo romanzo risultano personaggi straordinari, finemente cesellati, psicologicamente destabilizzanti tanto risulta profonda e così facilmente riconoscibile l’infinita sofferenza, declinata in diverse sfumature, che si portano dentro.
Ci si sente a propria volta dei fantasmi, ci si sente come se si stesse solamente osservando qualcuno spiare le vite di queste tre donne, non si riconosce il proprio corpo né il letto sul quale si è sdraiati, ci si sente Virginia con le mani fra quelle di Vanessa, si diventa Laura, con un anello di diamanti che manda bagliori dal volante della propria auto, e si sente il peso fresco e umido delle rose gialle di Clarissa. E si sente il calore di una tersa giornata di giugno anche nella atipicità delle piogge di inizio agosto.
Ho trovato la prosa di Cunningham davvero meravigliosa, ho trovato straordinario l’intrecciarsi di queste tre giornate così lontane nel tempo, e mi sento quasi grata per questo delicatissimo e raffinato omaggio a Virginia Woolf. Eppure – e quasi mi dispiace ammetterlo, non vorrei dirlo, ma purtroppo è così – tutta questa presenza di Virginia Woolf e della sua signora Dalloway è stata un’arma a doppio taglio. Perché descrivere una donna soltanto attraverso una sua giornata è qualcosa che è stato già fatto, e in maniera sublime. E i confronti sono inevitabili, sono forse qualcosa di intrinseco in un’opera che si richiama in maniera così esplicita alla sua fonte di ispirazione. Cunningham ha scritto qualcosa di molto pericoloso, che avrebbe potuto molto facilmente scivolare nella bieca imitazione di qualcosa di troppo grande per essere imitato; si mantiene in equilibrio precario, grazie ad una sicurezza nella scrittura e a una delicatezza nei temi straordinarie, vacilla un po’, ma tutto sommato riesce a trovare una sua dimensione. Una dimensione adombrata dal profilo netto e fragile di Virginia, ma abbastanza salda da lasciare qualche seme nell’animo dei lettori.
Ho letto questo piccolo e denso romanzo come un grande, grande omaggio ad una donna che nell’ultimo periodo si sta scavando inesorabilmente uno spazio privilegiato fra i miei autori preferiti: Virginia Woolf. Ed è ovvio che un omaggio a qualcosa che io per prima apprezzo fortemente non può che risultare qualcosa di positivo, di apprezzabile a priori. E di Virginia, in queste brevi pagine, c’è veramente tanto. Troppo, forse, mi verrebbe da dire. Virginia Woolf è una presenza tanto possente da diventare quasi ingombrante, da troneggiare e mettere in ombra il talento di Cunningham, che certamente non si può negare.
“Le ore”, titolo che Virginia avrebbe voluto dare a quello che poi sarebbe diventato “La signora Dalloway”, altro non è che “La signora Dalloway” moltiplicata per tre. Ci sono tre donne, tre voci fragili e magistralmente cesellate, lontane nel tempo e nello spazio e legate soltanto da un sordo dolore e dall’eco delle parole di Virginia. Proprio come ne “La signora Dalloway”, Cunningham cerca (e forse ci riesce, a pensarci bene) di tratteggiare il ritratto a tutto tondo di tre donne, descrivendo le ore di una sola, semplice giornata. Le voci di Virginia, Laura e Clarissa si sovrappongono in un coro sommesso ma dotato di una forza straordinaria, capace di far vacillare il lettore. C’è delicatezza e rispetto, tra le righe di Cunningham, e le donne che animano – che letteralmente si fanno anima – questo romanzo risultano personaggi straordinari, finemente cesellati, psicologicamente destabilizzanti tanto risulta profonda e così facilmente riconoscibile l’infinita sofferenza, declinata in diverse sfumature, che si portano dentro.
Ci si sente a propria volta dei fantasmi, ci si sente come se si stesse solamente osservando qualcuno spiare le vite di queste tre donne, non si riconosce il proprio corpo né il letto sul quale si è sdraiati, ci si sente Virginia con le mani fra quelle di Vanessa, si diventa Laura, con un anello di diamanti che manda bagliori dal volante della propria auto, e si sente il peso fresco e umido delle rose gialle di Clarissa. E si sente il calore di una tersa giornata di giugno anche nella atipicità delle piogge di inizio agosto.
Ho trovato la prosa di Cunningham davvero meravigliosa, ho trovato straordinario l’intrecciarsi di queste tre giornate così lontane nel tempo, e mi sento quasi grata per questo delicatissimo e raffinato omaggio a Virginia Woolf. Eppure – e quasi mi dispiace ammetterlo, non vorrei dirlo, ma purtroppo è così – tutta questa presenza di Virginia Woolf e della sua signora Dalloway è stata un’arma a doppio taglio. Perché descrivere una donna soltanto attraverso una sua giornata è qualcosa che è stato già fatto, e in maniera sublime. E i confronti sono inevitabili, sono forse qualcosa di intrinseco in un’opera che si richiama in maniera così esplicita alla sua fonte di ispirazione. Cunningham ha scritto qualcosa di molto pericoloso, che avrebbe potuto molto facilmente scivolare nella bieca imitazione di qualcosa di troppo grande per essere imitato; si mantiene in equilibrio precario, grazie ad una sicurezza nella scrittura e a una delicatezza nei temi straordinarie, vacilla un po’, ma tutto sommato riesce a trovare una sua dimensione. Una dimensione adombrata dal profilo netto e fragile di Virginia, ma abbastanza salda da lasciare qualche seme nell’animo dei lettori.