PREMESSA: col mio scrittore preferito, in uno dei suoi capolavori, temo di non essere riuscita molto sintetica... chiedo umilmente venia! :W
Ho ripreso in mano questo libro a distanza di diversi anni e, mentre lo leggevo, non facevo che chiedermi: ma come fa questo autore a far vibrare così intensamente le corde della mia anima? Come ci riesce? E perchè nessuno come lui? Insomma, l'ho letto cercando di carpire il “segreto” del mio amore per Dostoevskij e, per fortuna, non ci sono riuscita: la sua grandezza continua a restare un mistero per me, un mistero da vivere tutto nelle sue pagine... Però è stato bellissimo porsi questa domanda man mano che procedevo nella lettura, e qualche piccola risposta sono riuscita comunque a darmela.
I personaggi di Dostoevskij sono così sublimi e inarrivabili perchè ognuno di essi è come una finestra, uno squarcio aperto nell'interiorità dell'uomo. Ma ciò che secondo me li rende così unici è che, nonostante siano sempre anime inquiete, tormentate (in alcuni casi al limite della morbosità), tuttavia quasi tutti sono dotati di una lucida, profonda (e nella realtà piuttosto inverosimile) capacità di guardare dentro se stessi e di "descriversi"... Per questo i loro lunghi monologhi assomigliano tanto spesso a “lucidi deliri”: attraverso di essi è la loro stessa coscienza a parlare. Diversamente dalla maggior parte dei romanzi psicologici moderni e contemporanei, non siamo noi a entrare nella loro testa, ma sono loro stessi a tirar fuori tutto quello che hanno dentro. La differenza è che di fronte alle loro “confessioni” noi lettori restiamo spaesati: non abbiamo alcuna certezza che ció che essi ci stanno raccontando corrisponde a veritá... e infatti (sebbene i loro slanci siano sempre sinceri, anzi, proprio per questa ragione) spesso si confondono, si contraddicono, cercano disperatamente una soluzione che non trovano e noi - poveri lettori - dobbiamo distinguere da questa massa ingarbugliata una "veritá" che non esiste. Peró credo che il bello sia proprio questo: restare in balia delle loro incontrollabili passioni...
Come se non bastasse, poi, Dostoevskij pone i suoi personaggi sempre in situazioni estreme, per metterli alla prova e sondare le loro reazioni, quasi fossero le cavie di continui esperimenti psicologici. Per questo essi ci affascinano ma allo stesso tempo danno l’impressione di essere “eccessivi”, quasi irreali nell’estremizzazione dei loro sentimenti e delle loro gesta. C’è un passaggio bellissimo nella prefazione al mio libro che dice “l’illusione della verosimiglianza in Dostoevskij nasce dal fatto che analoghi pensieri scandalosi si affacciano continuamente alla mente di tutti; ma questi “pensieri” non si concretizzano mai nell’azione.” Io credo che molto del potere quasi ipnotico che esercitano i suoi romanzi (almeno su di me) sia dovuto a proprio questo aspetto.
Se tutti i personaggi di Dostoevskij sono incarnazioni di passioni e ideologie portate all’estremo, in questo romanzo c’è un ingrediente aggiuntivo e particolare, ovvero l’essere “un Karamazov”, quasi si trattasse di una sottospecie ben distinta del genere umano. In effetti l'autore, fin dall’inizio, non perde occasione di sottolineare che c'è un legame sotterraneo ma indistruttibile che unisce il padre e i tre fratelli, e che è talmente forte da affermarsi con una sua precisa identità: la "natura karomazoviana", appunto, ben descritta dal procuratore Kirillovic nella sua arringa accusatoria. "Ma perchè noi – dice, immedesimandosi nell’imputato – siamo nature ampie, karamazoviane, capaci di mescolare insieme i più opposti contrari che immaginar si possa, e di ficcar lo sguardo, nello stesso istante, in entrambi gli abissi, nell'abisso al di sopra di noi, l'abisso degli ideali più alti, e nell'abisso al di sotto di noi, l'abisso della più bassa, della più fetida caduta morale."
Mitja stesso, in occasione dell'interrogatorio, aveva avuto modo di dire: " e appunto questo m'ha fatto soffrire tutta la vita, ch'ero assetato di azioni elevate (...) e nello stesso tempo, per tutta la vita, ho continuato a fare turpitudini e nient'altro", e molto prima (in uno dei primi capitoli) sempre Mitja confidava ad Alesa: "noialtri Karamazov siamo fatti così, e anche in te, angelo, quest'insetto vive, e dentro al sangue ti cova burrasche. Burrasche sono, perchè la libidine è una burrasca, peggiore di qualsiasi burrasca! La bellezza: che tremenda e orribile cosa! (...) Lì gli opposti si toccano, lì tutte le contraddizioni vivono insieme".
Libidine e bellezza... ma di cosa, per cosa? Non solo di donne parla Mitja (questa passione, portata all’eccesso, egli la condivide quasi solo con suo padre) , ma di una lussuriosa e disperata brama di vivere a cui neanche il “puro” Alesa si sottrae. Non che la sua purezza non sia sincera, ma è anch'essa frutto di questo fortissimo (e tutt'altro che spirituale) attaccamento alla vita... Di Alesa, oltretutto, Dostoevskij “si serve” per offrire agli altri personaggi l’occasione di rivelare se stessi: nessuno, di fronte a lui, riesce a mentire, a nascondersi... la sua innegabile "bontà" diventa il polo d'attrazione (e di svelamento) per ciò che di più buio e nascosto c’è nel loro animo (e in questo la sua figura si avvicina molto a quella del principe Myskin). E’ a lui infatti che Ivan si confessa, in quei due capitoli di incredibile bellezza che sono Ribellione e, soprattutto, Il Grande Inquisitore.
È difficile trovare le parole adatte per descrivere Ivan, l' “eroe” dichiarato dallo stesso Dosto in prefazione al suo romanzo... In lui le contraddizioni karomazoviane raggiungono l'apice, in lui il conflitto fra i due opposti è ancora più disperato perchè si svolge tutto in una dimensione psichica... Da una parte egli sente una tensione inesauribile e inistinguibile verso l'Assoluto, dall’altra è avvinghiato al mondo da una forza terrena che è pura brama di vivere; da una parte anche lui vorrebbe poter "cantare l’inno" e abbandonarsi all’amore divino, dall’altra c’è qualcosa che lo blocca: “se le cose stanno così”, allora lui “non ci sta”. Sublime la sua sentenza “Non è che non accetti Dio: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto”.
Mai come in quest'opera il “problema religioso” (sempre presente in Dostoevskij) è il vero perno intorno a cui è costruita tutta la storia. Una questione che sembrerebbe puramente teorica non solo contamina la realtà “oggettiva”, ma persino la determina! Io credo che qui Dostoevskij faccia qualcosa di davvero strepitoso: (inizio SPOILER) accusando Ivan dell’assassinio di suo padre (il suo primo accusatore è infatti lui, l’autore), stravolge la normale gerarchia delle responsabilità, quella che ci dice che “pensare” è diverso da “fare” e che un desiderio, per quanto terribile, non ci rende colpevoli... E invece no, Ivan è l’assassino. La sua natura non accetta compromessi: se Dio non c’è, allora “tutto è possibile”. E quello che lui desidera (sebbene in modo confuso, quasi inconscio) si trasforma in realtà: voleva la morte di suo padre, e della sua morte egli è il principale responsabile. (fine SPOILER)
Io sul serio rabbrividisco pensando a quello che Dostoevskij è riuscito a concepire... Perchè lui è davvero tutt’uno coi suoi romanzi. Se c’è un’altra ragione per cui amo quest’autore sopra ogni altro, è che dentro le sue opere, dentro i suoi eroi, egli mette tutto se stesso: le sue passioni, le sue paure, i suoi tormenti ... e allora, quando leggo i suoi capolavori, davvero ho l’impressione che non stia solo leggendo un libro, ma stia facendo un viaggio straordinario e irripetibile all’interno della mente e del cuore di un uomo.