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Quello che mi piace tanto in Fortini è che unisce contemplazione e riflessione, natura e vicende umane, concretezza ed emozione personale. C'è un movimento, nelle sue poesie, che lo salva dall'appiattimento sul concreto di tanta poesia contemporanea.
Noto che non parla quasi mai in prima persona. Forse anche per questo le sue poesie non mi sembrano soltanto dei pretesti per parlare di sé, ma mi accompagnano a vedere il mondo dalla sua prospettiva.
Consideriamo il tono complessivo di questa che stiamo analizzando: quanta amarezza, non esplicitata ma nascosta nella scelta delle parole!
Uccelli e volpi vanno a caccia, non in prati aperti, ma nella discarica. Il senso di abbandono appare evidente fin dall'inizio, anzi, c'è di più: c'è uno spazio, che è nel titolo, poi ripetuto all'inizio e alla fine della prima strofa: uno spazio che non basta, che opprime, è uno spazio
prescritto. Ma sta parlando dello spazio, o della vita, anticipando quell'idea di morte che viene subito dopo?
(Eppure che tenerezza quel puntiglio dei passeri, anche loro sembrano coinvolti in una miseria generale, ma si ostinano a vivere).
Le nuvole, nemmeno loro evocano distanze. Com'è chiuso questo angolo di universo, in cui "la vita si guasta"! Anche la scena del funerale è volutamente piatta, non c'è dolore ma ripugnanza. Solo la scia dell'aeroplano traccia una linea chiarissima, come se volesse demarcare la separazione fra terra e cielo e far risaltare la differenza, sottolineando ancor di più il grigiore della terra.
Non sono riuscita a capire in che anno della sua vita Fortini abbia scritto questa lirica, ma tutto mi fa pensare che rispecchi il pessimismo della vecchiaia. O forse non è pessimismo, forse è consapevolezza, ma amara, rugginosa, senza consolazione, così sospesa nel vuoto di quelle ultime parole: "non serve".
Com'è diverso qui il Fortini maturo dal giovane poeta della "gioia avvenire", eppure anche questa è poesia, esattamente come anche la tristezza fa parte della vita.
