A Roma, il 31 dicembre 1990, una sedicenne si prepara per la sua prima festa di Capodanno: indossa un maglione preso alla Caritas, ha truccato in modo maldestro la sua pelle scura, ma è una ragazza fiera e immagina il nuovo anno carico di promesse. Non sa che proprio quella sera si compirà per lei il destino che grava su tutta la sua famiglia: mentre la televisione racconta della guerra civile scoppiata in Somalia, il Jirro scivola dentro il suo animo per non abbandonarlo mai più. Jirro è una delle molte parole somale che incontriamo in questo libro: è la malattia del trauma, dello sradicamento, un male che abita tutti coloro che vivono una diaspora. Nata in Italia da genitori esuli durante la dittatura di Siad Barre, Igiaba Scego mescola la lingua italiana con le sonorità di quella somala per intessere queste pagine che sono al tempo stesso una lettera a una giovane nipote, un resoconto storico, una genealogia familiare, un laboratorio alchemico nel quale la sofferenza si trasforma in speranza grazie al potere delle parole. Parole che, come un filo, ostinatamente uniscono ciò che la storia vorrebbe separare, in un racconto che con il suo ritmo ricorsivo e avvolgente ci svela quanto vicende lontane ci riguardino intimamente: il nonno paterno dell’autrice, interprete del generale Graziani durante gli anni infami dell’occupazione italiana; il padre, luminosa figura di diplomatico e uomo di cultura; la madre, cresciuta in un clan nomade e poi inghiottita dalla guerra civile; le umiliazioni della vita da immigrati nella Roma degli anni novanta; la mancanza di una lingua comune per una grande famiglia sparsa tra i continenti; una malattia che giorno dopo giorno toglie luce agli occhi. Come una moderna Cassandra, Igiaba Scego depone l’amarezza per le ingiustizie perpetrate e le grida di dolore inascoltate e sceglie di fare della propria vista appannata una lente benevola sul mondo, scrivendo un grande libro sul nostro passato e il nostro presente, che celebra la fratellanza, la possibilità del perdono, della cura e della pace.
Non sempre, dopo aver letto un libro, si ha voglia di commentarlo. Non sempre si ha voglia di lasciare che le sensazioni che ha suscitato vengano fuori… probabilmente perché non si è pronti, perché esse hanno bisogno di sedimentare, di incubare dentro di noi per farsi altro che un groviglio scuro ed impossibile da maneggiare. Questo, per me, è il caso: non credo di essere pronta a descrivere questo libro che mi è piaciuto – è banale dirlo – ma che ho fatto fatica a finire… una grande fatica, probabilmente perché ho sbagliato il momento per leggerlo. Quest'ultimo libro della Scego – per me il primo approccio con lei – è impegnato ed impegnativo. È una lunga lettera fiume di una zia scrittrice italo-somala a sua nipote cittadina del mondo. Un libro che parla di guerra, di famiglia, di quella malattia che è trauma e sradicamento. Una testimonianza intima e necessaria per chi verrà, perché sappia, non ignori e non dimentichi.
Non sempre, dopo aver letto un libro, si ha voglia di commentarlo. Non sempre si ha voglia di lasciare che le sensazioni che ha suscitato vengano fuori… probabilmente perché non si è pronti, perché esse hanno bisogno di sedimentare, di incubare dentro di noi per farsi altro che un groviglio scuro ed impossibile da maneggiare. Questo, per me, è il caso: non credo di essere pronta a descrivere questo libro che mi è piaciuto – è banale dirlo – ma che ho fatto fatica a finire… una grande fatica, probabilmente perché ho sbagliato il momento per leggerlo. Quest'ultimo libro della Scego – per me il primo approccio con lei – è impegnato ed impegnativo. È una lunga lettera fiume di una zia scrittrice italo-somala a sua nipote cittadina del mondo. Un libro che parla di guerra, di famiglia, di quella malattia che è trauma e sradicamento. Una testimonianza intima e necessaria per chi verrà, perché sappia, non ignori e non dimentichi.