La verità rafforzal'Unità
A Pontelandolfo e Casalduni, ogni anno, per l'anniversario della strage, si inscena
la battaglia fra "briganti" e "piemontesi". Racconta Nicola Bove, presidente della Pro
Loco di Casalduni che al recupero della storia scomparsa si dedica, ormai a tempo
pieno, da una ventina di anni: «Gli anziani avvertono i figuranti guerriglieri borbonici:
"Non andare di là, ci stanno i soldati! "» come se lo scontro fosse vero, e si potesse
correggere la storia.
«Ci viene qualche migliaio di persone, dalla Campania, dalla Basilicata, dalla
Calabria» dice Bove. Ma svicola diplomaticamente sul fatto che i due paesi celebrano
la giornata della memoria recuperata ognuno per conto suo (da Pontelandolfo
qualcuno avrebbe chiesto a Casalduni il risarcimento dei danni, perché la rappresaglia
coinvolse i due paesi, ma i soldati piemontesi in fuga da Pontelandolfo vennero uccisi
a Casalduni). Bove era commerciante di mobili. Sentì parlare del massacro in alcuni
convegni, era il 1990. Volle saperne di più. I vecchi ricordavano che «qualcosa di
brutto era successo»; brandelli slegati di racconti. E poi, documenti incompleti a
comporre, piano piano, una storia raccapricciante. «Cerchiamo negli archivi
comunali, parrocchiali dei paesi intorno,» spiega ora lui, aiutato da ragazzi del
servizio civile «perché qui a Casalduni tutto fu distrutto.» Di Pontelandolfo tre case
rimasero, di Casalduni nulla. Né si sa quanti furono uccisi. Oggi il paese ha
millecinquecento abitanti; prima della strage, tremila. Sull'esempio di Bove, anche nei
centri vicini si organizzano convegni, manifestazioni per ricordare.
Andiamo a pranzo a Pontelandolfo, in un ristorante di tradizione. Appena entri,
sulla sinistra, una parete-bacheca, con libri e documenti storici; alcuni si direbbero
inediti! «Bisogna tradurli» dice l'oste, Gaudenzio Di Mella, un ex autotrasportatore,
che li recupera e li studia, con l'aiuto di esperti. E bandiere, stemmi. «Il tempo della
vergogna è finito. Di quella nostra», borbotta il ristoratore. Osservo che un paese
rinasce se riacquista la memoria. Lui scuote la testa; mi porge un foglio; il tema di un
allievo delle scuole medie per il centenario dell'Unità, nel 1961: «Tutti i parenti miei
stanno in America e io pure ci andrò, appena finita la scuola. Il mio paese, qua in
Italia, è solo provvisorio: il vero Pontelandolfo sta oltre oceano, nel New Jersey degli
Stati Uniti. Mio zio ha fatto la guerra del Pacifico nei marines e un altro zio sbarcò a
Salerno e venne pure a trovarci portando ogni ben di Dio. Qua tutti vanno in America,
per tradizione, e mi hanno raccontato i nonni che una volta Pontelandolfo fu distrutto
e messo a fuoco perché i paesani erano briganti. Da quella volta tutti furono
emigranti. Molti fecero fortuna come cittadini americani, però non hanno mai
dimenticato l'origine e il paese. Per noi New York è più vicino di Milano e sappiamo
l'inglese meglio dell'italiano. A scuola ci hanno detto che cent'anni son passati
dall'unità d'Italia. Cent'anni sono tanti e noi non ce ne siamo accorti».
«L'ho trovato fra le macerie di un edificio pubblico» dice l'oste.
Ha ragione lui: potranno forse recuperare la memoria, ma l'identità di
Pontelandolfo è morta con la strage. Nel paese (della subregione sannita in cui i
Romani deportarono i Liguri irriducibili) si erano stabiliti esuli senesi in fuga dalle
guerre fra guelfi e ghibellini. Dopo la rappresaglia fu ripopolato, ma da cognomi che
portarono altre storie, radici di posti diversi, non condivise. Pontelandolfo c'è, ma è
altro.E non tutti hanno interesse a ristabilire i fatti: ci terreste, se fosse vostro avo
Achille Jacobelli (usurpatore di terre demaniali; figlio di un delinquente comune
condannato a morte, ma graziato dai Borbone) che, per ingraziarsi i piemontesi,
chiede loro di «radere al suolo ogni casa di luoghi infausti come Pontelandolfo e
Casalduni» («Bruciate, uccidete, togliete dalla faccia della terra ogni abitante di questi
paesi»)? O se fosse il sindaco che lascia il paese alla vigilia del massacro, forse
sapendo e non avvertendo, per porsi al sicuro a Napoli? Quei nomi ci sono ancora; i
risentimenti pure (il dottor Ferdinando Melchiorre Pulzella, discendente del sindaco,
ha querelato Antonio Ciano, autore di / Savoia e il massacro del Sud, e ha scritto un
saggio, per sostenere che le vittime della rappresaglia per l'azione dei briganti furono
solo tredici).
«Lei ricorda gli Stormy Six?» chiede l'oste. Come no (è uno dei rari e discutibili
privilegi dell'età): un complesso musicale fine anni Sessanta. «E ricorda il loro album
del 1972, Unità?» No. «Racconta quello che accadde. Una delle canzoni è
Pontelandolfo: "Era il giorno della festa del patrono / E la gente se ne andava in
processione... Pontelandolfo la campana suona per te / Per tutta la tua gente / Per i
vivi e gli ammazzati / Per le donne ed i soldati / per l'Italia e per il re".»
Sono passati centocinquant'anni. E non se ne vuole parlare. «Nel 2008, al festival
delle Pro Loco a Montesilvano, Pescara, c'erano millecinquecento persone e il nostro
gruppo folk partecipò, con lo sbandieramento del vessillo borbonico. Si ribellò la
delegazione piemontese: "Ancora!". "Ma perché, vorreste che cancellassimo la nostra
storia?" replicai. "Ma la conoscete? Se volete, ci incontriamo e ne parliamo." Ci siamo
dati appuntamento a Roma.»
Ogni anno, a Vicenza, il Comune deponeva una corona dinanzi alla lapide che
ricorda un grande eroe del Risorgimento italiano, medaglia d'oro al valor militare, due
volte medaglia d'argento: il colonnello Pier Eleonoro Negri. Nel 2004, un tenace
cacciatore di documenti storici, Antonio Pagano, scoprì che fu lui a guidare l'eccidio
di Pontelan-dolfo (in un primo tempo, si pensava fosse stato Gaetano Negri, pure lui
del Sesto Reggimento, altro "sterminatore di briganti", poi sindaco di Milano).
E ora?
Ogni anno, il Comune di Vicenza continua a deporre una corona dinanzi alla lapide
di Pier Eleonoro Negri. In nome del popolo italiano, inclusi Pontelandolfo, Casalduni,
Campolattaro. I soldati blu per building a country, "costruire un paese", rubarono
vita e terra agl'indiani. Questo ancora ci indigna. I soldati del Nord Italia, per costruire
un paese, sterminarono e depredarono il Sud. Questo non vi indigna? Carcere a vita
per Reder e Kappler e medaglia d'oro per Negri che, come loro e più di loro, fece
massacrare italiani inermi per rappresaglia. Cosa direste, se il Comune di Vicenza
deponesse ogni anno una corona d'alloro sulle tombe di Reder e Kappler?
Ma quanti meridionali avete visto, a Vicenza, a ostacolare la cerimonia? Quanti
lanci di vernice rosso-sangue segnano sulla lapide il disonore del nobile vicentino?
Questa è l'accettazione della minorità: al più ti lamenti e non reagisci. Uno
sterminatore è onorato come eroe, e non lo si impedisce. «Una ventina di anni fa,»
dice Nicola Bove «l'allo-ra sindaco chiese che a Pontelandolfo fosse assegnata la
medaglia d'oro, visto il sangue versato per l'Unità. Era presidente della Repubblica
Sandro Pertini. Fu negata.» Alle vittime no, al massacratore sì. Strano paese, in cui
non importa come vinci, ma se perdi.
Quando accetti la minorità, accetti tutto. Lo dico con un'immagine tratta dal
racconto del filosofo meneghino Ferrari sulla mattanza di Pontelandolfo. I superstiti lo
accolsero con dignità, lo ospitarono in una delle tre case rimaste. Fra le macerie
fumanti e i sopravvissuti che vi rovistavano per cercare tracce dei loro cari e beni da
recuperare, lo condussero da Antonio Rinaldi, già possidente (gli avevano distrutto e
rubato tutto), liberale e unitarista, come i suoi figli Francesco e Tommaso, che erano
andati incontro ai bersaglieri, facendosi riconoscere, ma furono ugualmente costretti a
pagare un riscatto, poi fucilati, finiti alla baionetta (i meridionali pro-Savoia erano
utili, ma quando non più utili, meridionali come tutti gli altri; trattati alla stessa
maniera). All'onesto deputato del Nord che gli andava incontro, il padre dei due
filopiemontesi ricattati e uccisi disse soltanto: «Non domando niente, non mi lamento
di nulla».
Qualunque cosa ci facciano sarà meno di quel che ci hanno già fatto; la memoria
tradita di un eccidio è meno dell'eccidio; scatta persino l'immonda gratitudine della
vittima per il carnefice, ché potrebbe farti più male e si contiene. E l'irrinunciabile,
subdolo bisogno di giustizia può indurti all'inversione della colpa: Negri è onorato,
perché meritavi la pena. È stato scritto: «I perseguitati piansero al funerale dei
persecutori».