Esistono, per quanto mi riguarda, almeno due livelli di lettura di quest'opera: quello oggettivo, che mi permette di apprezzare il testo e la sua essenza, e quello soggettivo, in base al quale la mia opinione ne risulta alquanto ridimensionata.
Ho trovato il testo molto scorrevole e di piacevole lettura, e confesso che, benché un testo teatrale, come molti sostengono, risenta un po'della lettura a mo' di racconto, proprio questa lettura scevra da impressioni visive e suggestioni esterne, mi ha permesso di apprezzarlo particolarmente. Non si fatica a comprendere il successo di quest'opera, nè la portata rivoluzionaria che ebbe al suo tempo: pensare ad un'irreprensibile madre di famiglia che abbandona il focolare domestico per ritrovare se stessa e, per una volta, anteporre le proprie esigenze (da sempre sacrificate) a quelle degli altri, riesce a stupire noi smaliziati lettori del XXI secolo, figuriamoci il pubblico di allora! Tuttavia, credo che Nora vada letta come una figura puramente simbolica dell'emancipazione femminile: la sua storia, la sua scelta, la sua presa di coscienza, hanno senso nell'ambito del messaggio rivoluzionario che Ibsen si riproponeva di comunicare al lettore/spettatore, e come tali non posso che apprezzarle, ma convincono meno osservate sotto altra luce.
D'altro canto, se dovessi mettermi a considerare la storia dal punto di vista personale e avulso dall'intento dell'autore, non nascondo che il tutto mi susciterebbe non poche perplessità.
Torvald Helmer, il marito della protagonista, diciamolo chiaro: è un idiota. Non un uomo cattivo, ma certamente uno sciocco: la sua prima preoccupazione è il denaro e l'immagine, e una volta toccato in quel punto debole, non si esime dal fare una scenata alla moglie, salvo poi, una volta fatti due conti in tasca e risolto il problema, ritrattare e tornare alle abituali moine coniugali. D'accordo, tutto vero, ma umanamente, basterebbe questo a spingere una donna a lasciare la propria casa, i propri adorati figli, e il proprio marito (del quale, fino ad allora, Nora non aveva mai trovato ragione alcuna per lamentarsi)? Qualcosa - più di qualcosa - mi dice di no. E mi viene dunque da pensare: per quanto la commedia sia godibile, se Ibsen voleva parlare di emancipazione femminile, non avrebbe fatto meglio ad optare per una storia, e un'eroina, maggiormente in grado di conquistare le simpatie (parlo di simpatia in senso etimologico) del pubblico? Perché, personalmente, avrei avuto molto poù rispetto per Nora se, dopo aver fatto la sua estemporanea scelta, avesse deciso di tornare indietro, affrontare il marito faccia a faccia, e farsi valere, pretendendo il rispetto e la parità di ruolo che le era dovuta. Questo mi sarebbe piaciuto, che avesse deciso di ricostruire il rapporto, con un uomo che oltretutto amava, partendo da altre basi, non la fuga.
Però, lasciando da parte i miei personalissimi desideri e ciò che soggettivamente avrei ritenuto auspicabile, mi rendo conto che lo scopo di Ibsen era semplicemente quello di lanciare un messaggio chiaro e inequivocabile, e di far riflettere, ragion per cui, letto in quest'ottica, è tutto legittimo.
Solo un piccolo neo: ho trovato i protagonisti troppo scarni, non adeguatamente approfonditi, e da questo discende anche la mia stessa itubanza circa il repentino cambiamento della protagonista. È pur vero che si tratta di un'oper teatrale, dove l'introspezione non può essere equiparabile a quella di un romanzo articolato... Shakespeare e Wilde, però, riuscivano a dare spessore ai loro personaggi anche in poche battute.