bouvard
Well-known member
Se…
Avevo dieci anni quando sentii parlare per la prima volta di Silvia. I miei genitori alla fine di quell’anno scolastico mi avevano mandato a trascorrere le lunghe vacanze estive in campagna dai nonni. Per essere precisi dai nonni e da un’infinità di altri parenti, visto che come scoprii ben presto in quel paesino a parte i cani, i gatti e le galline gli altri erano tutti miei parenti.
Ogni mattina appena mettevo i piedi fuori dal letto mia nonna attaccava con il suo ritornello dei non, “non fare rumore” “non far andare il pallone nel giardino dei vicini”, “non gridare”. Non mi sgridava se entravo in casa con le scarpe sporche o se lasciavo i vestiti sparsi dappertutto e persino se non mi lavavo i denti tutti i giorni non ne faceva una questione di Stato come mia madre, ma su Silvia non sentiva ragioni. Non dovevo assolutamente darle fastidio altrimenti… Non ho mai saputo cosa si nascondesse dietro quell’altrimenti, ma bastava il tono con cui lo diceva a farmi capire che sarebbe stato meglio per me non scoprirlo.
Di questa famosa Silvia per settimane seppi solo che era la nostra vicina di casa, perché nonostante gli appostamenti dietro tendine e cespugli non mi riuscii di vederla. Perciò me l’immaginai con gli occhiali rotondi da gufo e il colorito cadaverico della mia maestra di matematica e visto che all’epoca non difettavo di fantasia le avevo aggiunto anche degli artigli al posto delle mani e una verruca sulla guancia, su colore dei capelli invece non ero riuscito a decidermi.
Ancora oggi se ripenso a quando finalmente la vidi mi rivedo impalato in mezzo al giardino a bocca aperta come un povero idiota. Non solo Silvia non somigliava alla mia maestra, ma non aveva neppure gli artigli e la verruca, i capelli invece erano castani e le arrivavano fin sopra le spalle. Era proprio bella, ma la sua faccia triste mi convinse anche più delle minacce di mia nonna a non disturbarla.
***
Tre anni prima
-Mamma posso andare da Michela? La loro gatta ha fatto i gattini e Michela ha promesso di darmene uno appena sarà cresciuto un po’. Lo chiamerò Asterisco, Michela invece il suo lo chiamerà Virgola. Lo farò dormire su un cuscino in camera mia, ma se proverà a salire sul mio letto lo sgriderò, giocheremo insieme con le bambole, ma non dovrà toccare i libri…
A Silvia piaceva sentir parlare la figlia mente puliva i vetri, la sua voce allegra riusciva a renderle piacevole persino quel lavoro che odiava. Ma guardando l’orologio le labbra le si arricciarono in una smorfia infastidita, aveva ancora una pila di vestiti del marito da stirare e doveva anche passare dal suocero a controllare che avesse preso tutte le sue medicine e lasciargli qualcosa di pronto da riscaldarsi per la cena e poi doveva pensare anche alla loro di cena e poi… Le sue giornate sarebbero dovute durare almeno un altro paio d’ore perché non dovesse più ammazzarsi come un asino come invece le toccava fare.
-Mi dispiace tesoro, ma oggi non posso accompagnarti da Michela, ci andrai domani te lo prometto – le dispiaceva sempre quando non poteva accontentarla.
-Ma mamma posso andarci da sola, ho nove anni! Ti prometto che starò attenta per strada, ormai so come si fa, prima di attraversare guardo a destra e a sinistra e solo se non arriva nessuno passo – e guardò la madre con quegli occhioni a cui non si riusciva mai a dire di no.
A Silvia non piaceva mandarla in giro per strada da sola. Benedetta aveva dimostrato tante volte di essere una bambina fin troppo giudiziosa per la sua età, ma lei aveva paura lo stesso. Suo marito spesso la prendeva in giro per quel suo carattere apprensivo da mamma-chioccia e lei allora si sforzava di non esserlo e per un po’ le riusciva anche, ma poi ci ricascava sempre. Gli occhioni intanto continuavano a guardarla supplichevoli. Forse aveva ragione suo marito, in fondo la strada da fare era davvero breve e in quel paesino ci si conosceva tutti ed ognuno guidava piano.
****
Voleva tenere la sua bambina fra le braccia come faceva sempre quando era piccola per farla addormentare, e aspettare che lei lentamente aprisse gli occhi ancora insonnoliti. Era sicura che se tutta quella gente l’avesse lasciata sola con la sua bambina Benedetta si sarebbe risvegliata. Perché erano venuti? “Andate via tutti, lasciatemi sola con lei” la sua mente continuava a gridarlo, ma nessuno l’ascoltava.
Qualcuno la prese per un braccio. Dove volevano portarla? Non voleva andare da nessuna parte, voleva stare solo con la sua bambina, carezzarle il viso e i capelli e aspettare che si svegliasse, ormai non ci sarebbe voluto ancora molto. Si ritrovò seduta su una panca in chiesa, con quell’odore opprimente dei ceri accesi a darle la nausea. E poi tutti quei fiori e quella litania continua ad infastidirla. Perché nessuno capiva che Benedetta avrebbe avuto paura se non sentiva la sua voce? “State zitti tutti”.
Finalmente tornarono a casa. La gente prese a muoversi intorno a lei in punta di piedi come in un assurdo balletto e le loro parole non la smettevano di ronzarle intorno come mosche fastidiose. Tutti avevano qualcosa da chiederle bisbigliando “Hai fame?” “Vuoi dormire?”. Vedeva le loro labbra muoversi ma non si sforzava neppure di afferrare le loro parole e quelle scivolavano via senza lasciare traccia come le gocce di pioggia sui vetri di una finestra. Scomparivano silenziosamente come se non fossero mai state dette.
“Se non l’avesse lasciata uscire da sola non sarebbe successo…” era distesa sul divano con gli occhi chiusi ma aveva sentito chiaramente quelle parole appena sussurrate. Quelle non erano riuscite a scivolarle addosso come le altre, le avevano invece squarciato la mente con la stessa violenza di un fulmine che frantuma in mille pezzi il nero della notte e le si erano ficcate nelle carni come schegge di vetro appuntite.
Quel “Se…” si era incuneato sempre più a fondo nei suoi pensieri, come un granello di sabbia troppo fine per essere trattenuto dalle maglie di un setaccio. E quel granello da solo era riuscito a fermare una rotellina di un ingranaggio. Una sola rotellina, eppure adesso tutto l’ingranaggio era in scacco e non riusciva a ripartire. Davide contro Golia. La mente di Silvia ormai era una trottola impazzita che girava a vuoto sempre intorno allo stesso punto. Aveva cercato di ignorare quel granello in modo che la rotellina potesse fare quello scatto in avanti che le avrebbe permesso di superarlo e ripartire. Ma non ci riusciva e ad ogni attimo quel granello diventava sempre più grande, sempre più grande, sempre più grande. Un macigno. Ormai non lasciava più spazio per altri pensieri.
-E’ solo colpa mia… lo pensano tutti… non me lo dicono, ma lo pensano… tutti lo pensano… se lo sussurrano fra loro… ma io li sento lo stesso… è solo colpa mia… di nessun altro… solo mia… io l’ho lasciata uscire da sola… è solo colpa mia… hanno ragione è solo colpa mia… mia…mia…
“Se…”…
”Se…”
“Se…”
***
Quindici anni dopo
Fu una lunga e forzata convalescenza dopo un incidente a riportarmi in quel piccolo paesino dopo quindici anni, mio nonno non c’era più e neppure qualcun altro di tutti quei parenti, forse qualche gatto e qualche cane era ancora quello di quindici anni prima, le galline di sicuro non erano le stesse. E mia nonna non aveva più bisogno di raccomandarmi ogni mattina di non disturbare Silvia.
In quanto a Silvia seppi subito che non si era mai ripresa e abitava sempre nella casa affianco. La mattina quando mi svegliavo la trovavo in piedi sul balcone e quando uscivo per la mia passeggiata pomeridiana ero sicuro di trovarla seduta sulla panchina nel loro giardino. Un giorno provai a farle un cenno di saluto con la mano. Mi rispose uno sguardo che attraversò il mio corpo come se fossi fatto d’aria.
Per settimane le avevo visto fare solo il tragitto dal portone alla panchina, ma una mattina me la ritrovai inaspettatamente vicino al cancelletto d’ingresso che dava sulla strada. Ma questa sorpresa fu niente in confronto a quella di non sentirmi più attraversato dal suo sguardo. Uno strano luccichio negli occhi mi fece capire che quel giorno per Silvia il mondo esisteva. Il suo viso sembrava addirittura sereno, come se avesse finalmente fatto pace con i suoi pensieri e trovato quello che aveva sempre cercato. Dopo esserle passato davanti per un attimo tornai a girarmi per guardarla, aveva ancora quel luccichio negli occhi, ma io proseguì per la mia strada.
***
“Se solo avesse fatto capire in qualche modo le sue intenzioni forse si sarebbe potuto aiutarla, ma così invece…” le parole di mia nonna mentre bevevo il te quel pomeriggio mi colpirono come uno schiaffo in piena faccia. “Se solo avesse fatto capire in qualche modo…”, ma Silvia lo aveva fatto capire. A modo suo.
Quella mattina non aveva fatto pace con i suoi pensieri, aveva solo deciso di attraversare i binari nonostante il passaggio a livello abbassato e nonostante il fischio forte del treno, come aveva fatto la sua Benedetta tanti anni prima per la fretta di andare a vedere quei gattini.
Un pensiero improvviso dopo tanto tempo era riuscito a frantumare quel minuscolo granello di sabbia che inceppava la sua mente e l’ingranaggio, finalmente libero da ogni ostacolo, aveva iniziato a girare velocemente in una corsa folle.
Non doveva più aspettare la sua bambina, sarebbe andata da lei. Benedetta l’aveva chiamata, finalmente l’aveva perdonata.
Non c’erano più “Se…”.
Avevo dieci anni quando sentii parlare per la prima volta di Silvia. I miei genitori alla fine di quell’anno scolastico mi avevano mandato a trascorrere le lunghe vacanze estive in campagna dai nonni. Per essere precisi dai nonni e da un’infinità di altri parenti, visto che come scoprii ben presto in quel paesino a parte i cani, i gatti e le galline gli altri erano tutti miei parenti.
Ogni mattina appena mettevo i piedi fuori dal letto mia nonna attaccava con il suo ritornello dei non, “non fare rumore” “non far andare il pallone nel giardino dei vicini”, “non gridare”. Non mi sgridava se entravo in casa con le scarpe sporche o se lasciavo i vestiti sparsi dappertutto e persino se non mi lavavo i denti tutti i giorni non ne faceva una questione di Stato come mia madre, ma su Silvia non sentiva ragioni. Non dovevo assolutamente darle fastidio altrimenti… Non ho mai saputo cosa si nascondesse dietro quell’altrimenti, ma bastava il tono con cui lo diceva a farmi capire che sarebbe stato meglio per me non scoprirlo.
Di questa famosa Silvia per settimane seppi solo che era la nostra vicina di casa, perché nonostante gli appostamenti dietro tendine e cespugli non mi riuscii di vederla. Perciò me l’immaginai con gli occhiali rotondi da gufo e il colorito cadaverico della mia maestra di matematica e visto che all’epoca non difettavo di fantasia le avevo aggiunto anche degli artigli al posto delle mani e una verruca sulla guancia, su colore dei capelli invece non ero riuscito a decidermi.
Ancora oggi se ripenso a quando finalmente la vidi mi rivedo impalato in mezzo al giardino a bocca aperta come un povero idiota. Non solo Silvia non somigliava alla mia maestra, ma non aveva neppure gli artigli e la verruca, i capelli invece erano castani e le arrivavano fin sopra le spalle. Era proprio bella, ma la sua faccia triste mi convinse anche più delle minacce di mia nonna a non disturbarla.
***
Tre anni prima
-Mamma posso andare da Michela? La loro gatta ha fatto i gattini e Michela ha promesso di darmene uno appena sarà cresciuto un po’. Lo chiamerò Asterisco, Michela invece il suo lo chiamerà Virgola. Lo farò dormire su un cuscino in camera mia, ma se proverà a salire sul mio letto lo sgriderò, giocheremo insieme con le bambole, ma non dovrà toccare i libri…
A Silvia piaceva sentir parlare la figlia mente puliva i vetri, la sua voce allegra riusciva a renderle piacevole persino quel lavoro che odiava. Ma guardando l’orologio le labbra le si arricciarono in una smorfia infastidita, aveva ancora una pila di vestiti del marito da stirare e doveva anche passare dal suocero a controllare che avesse preso tutte le sue medicine e lasciargli qualcosa di pronto da riscaldarsi per la cena e poi doveva pensare anche alla loro di cena e poi… Le sue giornate sarebbero dovute durare almeno un altro paio d’ore perché non dovesse più ammazzarsi come un asino come invece le toccava fare.
-Mi dispiace tesoro, ma oggi non posso accompagnarti da Michela, ci andrai domani te lo prometto – le dispiaceva sempre quando non poteva accontentarla.
-Ma mamma posso andarci da sola, ho nove anni! Ti prometto che starò attenta per strada, ormai so come si fa, prima di attraversare guardo a destra e a sinistra e solo se non arriva nessuno passo – e guardò la madre con quegli occhioni a cui non si riusciva mai a dire di no.
A Silvia non piaceva mandarla in giro per strada da sola. Benedetta aveva dimostrato tante volte di essere una bambina fin troppo giudiziosa per la sua età, ma lei aveva paura lo stesso. Suo marito spesso la prendeva in giro per quel suo carattere apprensivo da mamma-chioccia e lei allora si sforzava di non esserlo e per un po’ le riusciva anche, ma poi ci ricascava sempre. Gli occhioni intanto continuavano a guardarla supplichevoli. Forse aveva ragione suo marito, in fondo la strada da fare era davvero breve e in quel paesino ci si conosceva tutti ed ognuno guidava piano.
****
Voleva tenere la sua bambina fra le braccia come faceva sempre quando era piccola per farla addormentare, e aspettare che lei lentamente aprisse gli occhi ancora insonnoliti. Era sicura che se tutta quella gente l’avesse lasciata sola con la sua bambina Benedetta si sarebbe risvegliata. Perché erano venuti? “Andate via tutti, lasciatemi sola con lei” la sua mente continuava a gridarlo, ma nessuno l’ascoltava.
Qualcuno la prese per un braccio. Dove volevano portarla? Non voleva andare da nessuna parte, voleva stare solo con la sua bambina, carezzarle il viso e i capelli e aspettare che si svegliasse, ormai non ci sarebbe voluto ancora molto. Si ritrovò seduta su una panca in chiesa, con quell’odore opprimente dei ceri accesi a darle la nausea. E poi tutti quei fiori e quella litania continua ad infastidirla. Perché nessuno capiva che Benedetta avrebbe avuto paura se non sentiva la sua voce? “State zitti tutti”.
Finalmente tornarono a casa. La gente prese a muoversi intorno a lei in punta di piedi come in un assurdo balletto e le loro parole non la smettevano di ronzarle intorno come mosche fastidiose. Tutti avevano qualcosa da chiederle bisbigliando “Hai fame?” “Vuoi dormire?”. Vedeva le loro labbra muoversi ma non si sforzava neppure di afferrare le loro parole e quelle scivolavano via senza lasciare traccia come le gocce di pioggia sui vetri di una finestra. Scomparivano silenziosamente come se non fossero mai state dette.
“Se non l’avesse lasciata uscire da sola non sarebbe successo…” era distesa sul divano con gli occhi chiusi ma aveva sentito chiaramente quelle parole appena sussurrate. Quelle non erano riuscite a scivolarle addosso come le altre, le avevano invece squarciato la mente con la stessa violenza di un fulmine che frantuma in mille pezzi il nero della notte e le si erano ficcate nelle carni come schegge di vetro appuntite.
Quel “Se…” si era incuneato sempre più a fondo nei suoi pensieri, come un granello di sabbia troppo fine per essere trattenuto dalle maglie di un setaccio. E quel granello da solo era riuscito a fermare una rotellina di un ingranaggio. Una sola rotellina, eppure adesso tutto l’ingranaggio era in scacco e non riusciva a ripartire. Davide contro Golia. La mente di Silvia ormai era una trottola impazzita che girava a vuoto sempre intorno allo stesso punto. Aveva cercato di ignorare quel granello in modo che la rotellina potesse fare quello scatto in avanti che le avrebbe permesso di superarlo e ripartire. Ma non ci riusciva e ad ogni attimo quel granello diventava sempre più grande, sempre più grande, sempre più grande. Un macigno. Ormai non lasciava più spazio per altri pensieri.
-E’ solo colpa mia… lo pensano tutti… non me lo dicono, ma lo pensano… tutti lo pensano… se lo sussurrano fra loro… ma io li sento lo stesso… è solo colpa mia… di nessun altro… solo mia… io l’ho lasciata uscire da sola… è solo colpa mia… hanno ragione è solo colpa mia… mia…mia…
“Se…”…
”Se…”
“Se…”
***
Quindici anni dopo
Fu una lunga e forzata convalescenza dopo un incidente a riportarmi in quel piccolo paesino dopo quindici anni, mio nonno non c’era più e neppure qualcun altro di tutti quei parenti, forse qualche gatto e qualche cane era ancora quello di quindici anni prima, le galline di sicuro non erano le stesse. E mia nonna non aveva più bisogno di raccomandarmi ogni mattina di non disturbare Silvia.
In quanto a Silvia seppi subito che non si era mai ripresa e abitava sempre nella casa affianco. La mattina quando mi svegliavo la trovavo in piedi sul balcone e quando uscivo per la mia passeggiata pomeridiana ero sicuro di trovarla seduta sulla panchina nel loro giardino. Un giorno provai a farle un cenno di saluto con la mano. Mi rispose uno sguardo che attraversò il mio corpo come se fossi fatto d’aria.
Per settimane le avevo visto fare solo il tragitto dal portone alla panchina, ma una mattina me la ritrovai inaspettatamente vicino al cancelletto d’ingresso che dava sulla strada. Ma questa sorpresa fu niente in confronto a quella di non sentirmi più attraversato dal suo sguardo. Uno strano luccichio negli occhi mi fece capire che quel giorno per Silvia il mondo esisteva. Il suo viso sembrava addirittura sereno, come se avesse finalmente fatto pace con i suoi pensieri e trovato quello che aveva sempre cercato. Dopo esserle passato davanti per un attimo tornai a girarmi per guardarla, aveva ancora quel luccichio negli occhi, ma io proseguì per la mia strada.
***
“Se solo avesse fatto capire in qualche modo le sue intenzioni forse si sarebbe potuto aiutarla, ma così invece…” le parole di mia nonna mentre bevevo il te quel pomeriggio mi colpirono come uno schiaffo in piena faccia. “Se solo avesse fatto capire in qualche modo…”, ma Silvia lo aveva fatto capire. A modo suo.
Quella mattina non aveva fatto pace con i suoi pensieri, aveva solo deciso di attraversare i binari nonostante il passaggio a livello abbassato e nonostante il fischio forte del treno, come aveva fatto la sua Benedetta tanti anni prima per la fretta di andare a vedere quei gattini.
Un pensiero improvviso dopo tanto tempo era riuscito a frantumare quel minuscolo granello di sabbia che inceppava la sua mente e l’ingranaggio, finalmente libero da ogni ostacolo, aveva iniziato a girare velocemente in una corsa folle.
Non doveva più aspettare la sua bambina, sarebbe andata da lei. Benedetta l’aveva chiamata, finalmente l’aveva perdonata.
Non c’erano più “Se…”.