1943: il treno dei deportati
Ho finito il capitolo 1943 e ho già iniziato 1944.
Il libro è davvero molto triste: io leggo prevalentemente la sera prima di dormire, e ci sono delle sere in cui non ce la faccio a prenderlo in mano, non sono dell’umore giusto per affrontarlo, non mi sento abbastanza forte.
Nel capitolo del 1943 ci sono tantissime cose che mi hanno colpito, e anche nei capitoli precedenti, ma mi voglio soffermare sull’episodio del treno carico di ebrei fermo allo stazione in attesa di partire.
È uno degli episodi che più in assoluto mi ha colpito.
Mi ha colpito per l’attrazione che sente Ida, per la descrizione di questo brusio che proviene dai vagoni, all’inizio indistinguibile ma che poi ad ascoltare attentamente e all’avvicinarsi si esplica in suoni e voci agghiaccianti, risate folli, grida di doglie, borbottii che si immaginano preoccupati, grida fisiche: “sete, aria”…
L’effetto ipnotico che tutto ciò suscita su Ida mi ha tolto l’aria, come se lo vivessi anch’io.
Ida sente la sua appartenenza alla razza ebrea come una sua propria colpa, che accetta senza nessuna domanda, senza nessun senso di ingiustizia, è così e basta. Quei treni sono un abisso di orrore in cui vorrebbe quasi lasciarsi andare, per non vivere più l’angoscia di essere scoperta, come un riposo al terrore quotidiano di sapersi appartenente ad una razza che deve essere cancellata, che è giusto che lo sia, non c’è nemmeno bisogna che si dica perché.
Per sé a lei andrebbe anche bene tutto ciò, non ne fa una questione, anzi per tutto il libro è attratta da quelli come lei, sente che è lì che dovrebbe stare, anche se questo la terrorizza. E’ solo per i figli, anzi per Useppe che resiste e sente di dover nascondere la verità.
Cosa che invece non aveva saputo fare sua madre, non trattenuta da niente e nessuno ormai.
Ed ecco quindi che quello che la riscuote da quel torpore da quel fascino malato sono proprio gli occhi inorriditi di Useppe, lo sguardo agghiacciato con cui lui guarda i treni.
Una pagina da brividi.
La Morante è incredibile nello spargere tutta la storia di eventi insensati, come lo è la vita.
E anche in questo episodio ce ne è uno: il bigliettino che Ida raccoglie.
In quel momento mi sono allontanata dalla storia, ho pensato “chissà che parole dentro, chissà che addio alla vita, che strazio in quelle righe”.
Ma la Morante mi ha ripreso subito per mano, mi ha riportato in quello che non un romanzo, ma vita vera e mi ha restituito parole sconnesse e quasi insensate di un condannato a morte che si preoccupa di un debituccio. Un foglietto che non ha nemmeno senso cercare di consegnare nella tragicità di tutti gli eventi: ma che è la forza della vita, perché la vita è così, è attaccamento alle piccole cose, sono solo i piccoli pensieri che ci salvano quando le cose sono troppo tragiche da poterci riflettere veramente.
Noto che i commenti stentano a decollare in questo gruppo di lettura e mi chiedo se è un caso.
O se non è come succede per me: per questo libro anche il commento è dolore, come la lettura.