Gli insetti preferiscono le ortiche è il secondo libro che leggo di Tanizaki, un romanzo a cui non potevo rinunciare dopo aver letto L'amore di uno sciocco, che mi aveva colpito e fatto interessare all'autore.
Ho letto alcuni romanzi di letteratura giapponese, appartenenti ad autori differenti, e l'idea che mi sono fatta è che esistono principalmente due ingredienti, quasi opposti fra loro eppure ugualmente caratterizzanti, ovvero la delicatezza, che in altri casi ho definito proprio “levità” (mi sembra che sia il termine più efficace) e l'eccesso, l'ossessione. Se, per quel poco che ho letto finora, sono sempre riuscita a “collocare” un autore da una parte piuttosto che dall'altra, con Tanizaki mi trovo di fronte a un bel dilemma: L'amore di uno sciocco è il racconto di un'ossessione (più che di un uomo per la sua donna, direi di entrambi per un “modello occidentale” a loro totalmente estraneo), che condurrà entrambi i protagonisti alla degenerazione, mentre Gli insetti preferiscono le ortiche narra l'assoluta “immobilità” di una coppia di coniugi di fronte alla necessità di ammettere la fine del proprio matrimonio e di separarsi.
Insomma, i due aspetti della levità e dell'eccesso, del “non detto” (mi viene in mente il grande Kawabata) e del “troppo detto”(penso soprattutto a Kenzaburo Oe), in Tanizaki sembrano trovare un punto di incontro, ed è questo: l'incapacità dell'uomo (nipponico) di prendere coscienza di se stesso, di ciò che realmente è e di conseguenza di ciò che deve “mostrare” agli occhi del mondo. Entrambi i protagonisti dei romanzi sono dei falliti, solo che nel primo caso Joji si fa sopraffare dagli eventi, nel secondo l'indecisione di Kanamè si trasforma in vera paralisi dell'azione e della narrazione. Questo non vuol dire che manchi la componente psicologica, anzi: in entrambi i romanzi essa trova ampio spazio, ma è lo spazio dell'incertezza e della crisi dell'uomo giapponese a cavallo fra tradizione e modernità, fra consapevolezza della sua identità (mai messa in discussione fino a quel momento) e l'interrogarsi sulla natura di questa identità.
Fra i passaggi più interessanti de Gli insetti preferiscono le ortiche vi è quello in cui Kanamè assiste a una rappresentazione del Bunraku, che lui stesso fino a quel momento aveva boicottato come qualcosa di “superato” e di cui invece, inaspettatamente, scopre la bellezza e peculiarità rispetto alle altre forme di teatro (sia giapponesi che straniere). L'apparente inespressività delle marionette, ad esempio, è in realtà la traduzione di un ideale in cui la bellezza non è individualità ma, al contrario, la perfezione inamovibile di una donna-bambola.
Tutte queste riflessioni sul significato e il valore delle differenti forme artistiche, strettamente intrecciate con quelle sui rispettivi modelli di bellezza femminile, vanno ad aggiungersi, nella mente di Kanamè, ai molteplici dubbi sulla convenienza o meno di formalizzare la separazione con sua moglie, che di fatto risale già a molto tempo prima. Sembra quasi che la sua perenne esitazione sia in qualche modo “peggiorata” dagli interrogativi che proprio la frequentazione di suo suocero e la progressiva riscoperta delle tradizioni artistiche nipponiche lo inducono a porsi.
Insomma, che si tratti di vittima di ossessione o di incapacità di agire, l'uomo di Tanizaki si presenta come un inetto, un fallito, che si lascia vivere perchè incapace di prendersi le proprie responsabilità. Un altro tassello che va a integrare e piacevolmente “complicare” le sfaccettature della letteratura giapponese quale si è andata definendo soprattutto nella prima metà del secolo scorso: una cultura per la prima volta “aperta” a ciò che non è autoctono e di conseguenza una cultura in crisi o perlomeno in discussione, che pretende e si sforza di restare se stessa, pur comprendendo di non poterlo fare senza “rendere conto” del valore e del significato della sua diversità.
Mi chiedo semplicemente quanti e quali saranno gli aspetti di questa straordinaria cultura che ancora avrò la fortuna di scoprire.