85° Poeticforum - Le poesie che amiamo

Pnin

Well-known member
Io non credo di saper commentare...
Comunque questa poesia mi fa tornare alla mia stessa infanzia con un realismo impressionante. Certi dettagli sono resi con l'attenzione e l'emozione che si vive da bambini ma attraverso un linguaggio efficacissimo, quasi fotografico.
Riuscire a far dialogare così bene il nostro sé adulto con quello bambino non è affatto facile.
Mi emoziona tantissimo!
 

alessandra

Lunatic Mod
Membro dello Staff
Questa poesia è forse tra le cose più meravigliose che abbia letto qui... il terrore, la fiducia nello zio, e il vero coraggio che è il superamento della paura, come si può non emozionarsi o immedesimarsi? Sembra un cortometraggio. Si commenta da sola.
 

alessandra

Lunatic Mod
Membro dello Staff
Prossima poesia

Charles Simic

Sasso

Càlati in un sasso,
io farei così.
Lascia che altri si facciano colomba
o digrignino i denti come tigri.
Mi basta essere un sasso.

All’esterno è un enigma:
nessuno sa come rispondere.
Ma fresco e quiete dev’esserci all’interno.
Anche se una mucca lo calca col suo peso,
anche se un bambino lo getta dentro un fiume;
il sasso affonda, lento, imperturbato,
fino al fondo
dove i pesci bussano alla sua soglia
e vengono a origliare.

Ho visto scintille schizzar via
quando due sassi sono strofinati,
forse là dentro non fa così buio;
forse c’è una luna che brilla
da chissà dove, spuntando magari dietro un colle-
un chiarore appena sufficiente a decifrare
quelle strane scritte, mappe stellari
sui muri interiori.

Traduzione di Andrea Molesini

Charles Simic
Stone
Go inside a stone
That would be my way.
Let somebody else become a dove
Or gnash with a tiger’s tooth.
I am happy to be a stone.

From the outside the stone is a riddle:
No one knows how to answer it.
Yet within, it must be cool and quiet
Even though a cow steps on it full weight,
Even though a child throws it in a river;
The stone sinks, slow, unperturbed
To the river bottom
Where the fishes come to knock on it
And listen.

I have seen sparks fly out
When two stones are rubbed,
So perhaps it is not dark inside after all;
Perhaps there is a moon shining
From somewhere, as though behind a hill-
Just enough light to make out
The strange writings, the star-charts
On the inner walls.
 

Pnin

Well-known member
Molto bella!
A me fa pensare che possono essere sassi quelle persone talmente risolte (non mi piace tanto il termine, ma non me ne viene un altro) da restare sempre e comunque salde nelle tempeste della vita. E la loro ricchezza interiore è misteriosa a comprendersi per chi vede da fuori, anche se in alcune circostanze si può palesare.

Mi ricorda tanto un monaco zen che ho casualmente conosciuto molti anni fa. Lui potrebbe essere una di queste persone. Non gli avresti dato la minima importanza a vederlo eppure sapeva affrontare situazioni incredibili come se fosse la cosa più normale del mondo, senza bisogno di visibilità o ringraziamenti, solo perché gli andava di farlo, o lo riteneva giusto, chissà...
 

alessandra

Lunatic Mod
Membro dello Staff
Non ho niente da aggiungere a quanto scritto da @Pnin.
Io immagino un uomo silenzioso, forse un uomo che vive in campagna (c'entrano sicuramente il fiume e le pietre con questa mia sensazione) con le unghie sporche di terra. Un uomo anziano che dal suo angolo di mondo ne ha visto e sentito tante, e che ha una percezione delle cose che non si nota.
Bellissima.
 

alessandra

Lunatic Mod
Membro dello Staff
Inserisco la prossima poesia.


Le labbra rosso fuoco

Le labbra rosso fuoco.
Come prima
quando lui era assente,
sconosciuto e lontano
dal mio corpo indifeso.
Lui, costante e invadente
con un colpo di mano
d'improvviso mi priva
del colore e del peso.
Lui mi vuole leggera
rattristita e silente
glabra dea del dolore.
Io, davanti allo specchio
che non cedo al suo gioco.
Come prima.
Mi dipingo le labbra
rosso ardente, di fuoco.

Sara Ferraglia
 

Pathurnia

Well-known member
Mentre leggevo questa poesia il mio compagno mi ha chiesto: "Che hai?"
Poi ha detto: "Ti è apparsa quella ruga."
Quella che mi viene quando corrugo le sopracciglia ed ho la faccia seria.
Poi ho sorriso e ho detto: "Meno male che noi non siamo così."
E questo è ciò che ho da dire di questa poesia.
Ah, no, un'altra cosa: quel rossetto rosso fuoco fa sperare in una esplosione. Forse.
🙋‍♀️
 

Pnin

Well-known member
Infatti è proprio l'idea della reazione, il passo di chi non si rassegna a sentirsi vittima, che mi è piaciuto di questa poesia
 

Pathurnia

Well-known member
Non saprei dire se in questa poesia percepisco l'embrione di una rivolta o invece un tantino di autocompatimento. La consapevolezza è una bella cosa se poi si concretizza in un cambiamento.
Mm.. è inutile, questa poesia mi fa l'effetto di un gessetto che stride sulla lavagna.
Può anche essere un segno della bravura dell'autrice se voleva denunciare una situazione di disagio, ma preferisco non pensarci troppo altrimenti mi torna la ruga.
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Pnin

Well-known member
Non conosco il vissuto dell'autrice quindi non so quale fosse il suo intento... ma a me le poesie piacciono anche perché sanno toccare ad ognuno corde diverse.
Per esperienza personale non sarei capace di accostare l'autocompiacimento ad un contesto simile, ma vista da fuori, da un altro punto di vista, potrebbe anche starci.
Quindi grazie @Pathurnia per avermi offerto un'ulteriore visuale!
 

Pathurnia

Well-known member
No, non avrei mai detto che ci trovavo autocompiacimento, la sofferenza si sente ed è forte anche se repressa. Ma l'autocompatimento sì, lo sento in quel
Lui mi vuole leggera
rattristita e silente
glabra dea del dolore

che mostra una visione della protagonista come una persona che si sintonizza con le aspettative del supposto tormentatore. Non so e non m'interessa sapere se sia il vissuto dell'autrice o sia pura fantasia, ma leggo le sue parole e su quelle baso la mia critica:
Lui, costante e invadente
con un colpo di mano
d'improvviso mi priva
del colore e del peso.

E io dico che se lui la priva del colore e del peso, se la rende inconsistente, è anche lei che glielo permette.
Certo, ci sono situazioni di vessazione psicologica da cui è difficile uscire anche al giorno d'oggi. Ma non basta dipingersi le labbra e l'anima di un colore purpureo, non basta rivendicare il diritto alla propria legittima passionalità. Non basta bruciare in silenzio illudendosi che basti l'odio silenzioso per prendersi una rivincita (o una rivalsa).
No, porca miseria, se stai con uno che ti nega allora sei anche tu che ti rinneghi.
E questa volta non ce lo metto il "secondo me".
 
Ultima modifica:

Pnin

Well-known member
Più che rivincita o rivalsa a me ha dato un'idea di "disobbedienza", che è il primo passo in queste situazioni per scegliere di uscirne, ma è solo la mia impressione ovviamente
 

alessandra

Lunatic Mod
Membro dello Staff
Le parole "non cedo al suo gioco" e quel "Come prima" ripetuto mi fanno pensare che la decisione di tingersi le labbra sia metafora di una ribellione, di una decisione definitiva. Mi hai privato del colore e del peso, ok, d'ora in poi non lo farai più. Ed è vero che anche lei glielo ha permesso, ma credo anche che sia molto complicato uscire da una situazione di dipendenza affettiva.
 

Pathurnia

Well-known member
Per quanto grande fosse e frondoso il corpo
dello zio, uno e ottantotto alla visita di leva,
le spalle da artigliere della Meccanizzata “Trento”
in una guerra piena di sabbia e sole,
da bambino il buio metteva paura.
Chissà in quale regione dei miei occhi la fiabesca
cella del ragno schiudeva le grate alla tenebra,
la versava dai monti cupi al prato
quando prima le margherite nella sera
si stringevano a pugno.
Erano sere dove ancora tiepida
l’architrave teneva dentro l’estate, al limite dell’aia
e nell’odore di pollame e terra battuta,
nel rimasticare dei conigli in gabbia,
nel velluto del volo dei pipistrelli bassi sul granaio,
niente, nemmeno stringermi alla mole dello zio
mi strappava ai soprassalti trascorsi con le coperte a fior d’occhi
guardingo come un Adamo appena sceso dall’albero,
perso nell’erba alta, mentre la notte si avvicinava
con il passo di fiera.
La panca di legno dove sedeva lo zio,
fermo come l’aria ferma del primo tramontare,
si faceva allora una zattera assediata dal buio
dove c’era spazio per due: il cucciolo e l’uomo grande;
due segni, uno breve e uno lungo,
minuscoli di fronte alla platea delle stelle
che si andava scoprendo.
E dei due il più breve affondava le radici nel futuro
il più lungo affondava le radici nel passato,
e, insieme, intrecciavano una fune lanciata nell’ignoto e nel tempo.
Il codice di salvezza era sempre lo stesso:
avvicinare la mia infanzia esposta e incandescente
alla panca dove sedeva lo zio, mettere la mano
nell’incavo del suo gomito mentre lui rilasciava
il calore e il sudore del giorno e con i grossi
polpastrelli tagliuzzati arrotolava sigarette sottili.
Finché, o una volta o in un sogno, prima che il sole tramontasse,
“Il buio è solo un colore, stupidello”, mi disse, aggiungendo
alla burbera dolcezza un leggero scappellotto.
“Le cose, per esempio, è come se le vestisse di nero
ma poi, alla fine, restano le stesse”.
E per dimostrami che era così, che era una verità garantita
quanto il fatto di me e di lui seduti sulla panca,
restammo taciturni ad aspettare la notte.
Il tempo ce lo prendemmo, sì, ce lo prendemmo tutto,
venne raccolto nel calice della nostra pazienza,
la mia a dire il vero più scalpitante,
mentre il cielo era ancora arrossato e le montagne scure:
oltre l’aia si incupivano un prato incolto
e un ippocastano tanto alto da vellicare la pancia al tramonto,
al di là una grande pietra faceva da confine,
bianca come un’apparizione. Lo zio la indicò
e ne chiese il colore. Era quasi splendente, calcarea,
era la pietra di un diadema caduto nel prato.
Rimanemmo lì, ad aspettare, le guance fresche
quando la linea dell’orizzonte accecante
sparì dietro le montagne, scolpendole;
e a poco a poco, rotti gli argini, il buio
si impadronì di noi, il suolo, l’aria,
uniti nello stesso nero, la data incisa
nell’architrave un’ombra indistinta.
La maniera di essere piccoli al mondo senza paura,
questo mirava a mostrami lo zio artigliere
mostrando, di tanto in tanto, il trascolorare della pietra.
Di che colore è, ora? E adesso? E adesso?”, mi interrogava,
lo sguardo luccicante, sotto le sopracciglia che ombreggiavano.
E se prima il bianco spiccava nell’erba imbrunita,
dopo attraversò tutti i colori del grigio e si riunì nel nero
e quando fu meno di un’orma nella notte,
quando i suoi contorni si separarono dalla sua figura,
“Vai, adesso, cerca la pietra, trovala e toccala”, mi ingiunse lo zio,
senza aspettarsi altro che mi alzassi dalla panca.
Il prato a quel punto era un oceano da valicare.
I primi passi, con le ginocchia balbettanti,
li contai uno dopo l’altro, li tenni insieme dentro
un coraggio timido, come un buongiorno appena sussurrato.
Un passero che sbuca da una siepe, questo ero, o poco più
quando alzai la testa e si aprì la voragine del cielo,
e sopra l’aria era un vuoto che pesava, schiacciava i sandali
nell’umido dell’erba. Mi guidò l’ippocastano grande,
mi trasse a sé la sua scapigliatura, ne raggiunsi il tronco,
con lo spavento del naufrago premetti la sua scorza;
ancora una forma senza contorni, ma già quasi distinta,
la pietra era prossima, e remota insieme.
Mi avvicinai.
La toccai.
La pietra rimase una pietra,
il prato si fece più piccolo,
lo zio era alle spalle, lontano lontano.

Pierluigi Cappello, Aprile -Maggio 2015
(da "Stato di quiete)

La scena descrive un momento - che sia avvenuto o no poco importa - paragonabile a quelle che uno psicologo del secolo scorso, Maslow, definiva "esperienze della vetta" o peak experiences, ovvero i momenti di massimo appagamento e realizzazione di sé, momenti nati da un'intuizione improvvisa, da una rivelazione inaspettata, da una piega della realtà che cambia la planimetria della vita.
Il bambino, accompagnato dalla ferma e rassicurante figura dello zio, scopre che il buio è solo un colore come gli altri e non nasconde mostri terrificanti. Da quel momento in poi può affrontare il mondo, affrancato dal terrore senza nome che provava di fronte all'ignoto.
Scopre anche il proprio potere di affrontare la vita e contemporaneamente il prato (il futuro) diventa più percorribile e meno terrificante, mentre la figura di riferimento, lo zio-zattera, diventa qualcosa che è possibile lasciare alle spalle.
Questa poesia mi suscita due emozioni contrastanti.
La prima è di rimpianto, perché vorrei aver avuto da piccola una persona così sicura e forte che mi insegnasse a vivere.
La seconda è di speranza gioiosa, perché so che anche in mancanza di questa esperienza si può comunque andare in quel buio per scoprire che è solo un colore e che "la pietra rimane una pietra". Ci vogliono solo tre cose: coraggio, altro coraggio e ancora coraggio.
Grazie, Pierluigi.
 
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