Ho assistito al convegno che il Maestro ha tenuto - assistito dalla sua seconda giovanissima moglie Maria Kodama - nel marzo 1984, forse l'ultimo incontro pubblico, a Buenos Aires in un gremito Teatro San Martìn, nel centro della città.
Era un evento molto atteso, da tanto tempo noi aficionados aspettavamo che il nostro amato/odiato Escritor (in lettera maiuscola perchè è per me LO scrittore) si concedesse ai lettori. Chi lo ha letto riempiendosi e facendosi plasmare dai suoi capolavori sa bene che Borges è stato il centro inavvicinabile della terra, infuocato e lanciafiamme. In questo modo si era attirata la critica più feroce, quella che lo accusava di essere connivente con i dittatori (fece delle dichiarazioni nel 1976 a favore del golpe che gli costarono l'accusa pubblica di amico dei militari; in punto di morte riconobbe che non aveva riconosciuto, in quei generali, gli assassini feroci responsabili di 30.000 desaparecidos, 1500 assassinati e 1.500.000 di persone in esilio).
Tanta notorietà all'estero, altrettanta indifferenza in patria.
(salvo poi leggersi El Aleph o La Biblioteca Total sotto le coperte senza confessarlo a nessuno! Gli argentini sono un popolo mentiroso)
Il Maestro avrebbe tenuto una conferenza di circa due ore in conclusione di un mese di seminari e stages sulla sua opera letteraria. Era l'evento più atteso e più discusso dell'anno. Il tutto coincideva con una serie di iniziative legate ai temi della "ripresa culturale" dopo la lunga censura dittatoriale. Certi libri iniziavano a far capolino nelle librerie di quartiere (quelle che avevano tenuto nascosti i testi compromettenti messi al bando dalla dittatura) e molte piazze si ripopolavano di studenti e letterati che scambiavano le loro opere e i libri posseduti. C'era fermento sociale misto a una voglia di riappropriarsi della parola.
Arrivai due ore prima dell'inizio della conferenza ed ero già in piedi, in fondo alla sala gremita. Nessuno sfoggiava libri né le copie di Proa, le pubblicazioni che Borges curava con Bioy Casares e Silvina Ocampo. C'era una sobrietà nel presentarsi all'autore che faceva presagire il magico che, di lì a poco, avremmo vissuto.
L'attesa fu lunga, tanto quanto il tempo che durò il periodo buio dell'oscurantismo, interminabile.
L'arrivo di Borges non fu accompagnato da un applauso, vivevamo ancora il timore di esporci in modo individuale, sentivamo ancora la presenza – inesistente in quella sala – dei sicari e delle spie. Lui non poteva vedere la platea ma ne sentiva l'imbarazzante silenzio.
Rimanemmo seduti attendendo che il braccio di Maria lasciasse quello del Maestro e che lui, finalmente, si sedesse.
Non lo fece ed esordì dicendo:
No hay ninguna razòn para que me escuchen, si ni siquiera somos enemigos.
“Non c'è nessuna ragione perché mi ascoltiate visto che non siamo neanche nemici”.
Gli stupidi si alzarono ed andarono via, molti di noi rimasero estasiati e certi che dietro a quella frase che metteva distancia c'era un invito ad innalzarci al suo cospetto.
Lui ce lo concedeva e noi, neanche nemici, niente di niente, avevamo l'onore di ascoltarlo.
E' questo che i suoi critici non sopportavano, che lui concedesse loro di poter criticarlo.
Un uomo così, del non essere Borges, avrebbe finito i suoi giorni in esilio.
Lui, invece, finì i suoi giorni nel suo atopos, nel non luogo. (cosa c'è di più neutrale della Svizzera? Un paese senza arte né parte, il luogo ideale per morire, no?)
Mi andava di raccontarvelo così come mi veniva e così ho fatto.