La recensione di un’opera come questa rischia di essere scontata: che altro dire se non che siamo di fronte all’origine stessa della nostra identità culturale? A volte mi venivano i brividi al pensiero di leggere un poema risalente a oltre 2800 anni fa... e fa ancora più impressione rendermi conto che, a distanza di quasi tre millenni, l’Iliade è ancora in grado di dirci qualcosa che comprendiamo pienamente, perchè – al di là delle traduzioni più o meno moderne – parla il nostro stesso linguaggio. Potremmo definirlo un linguaggio universale ed è sicuramente vero, perchè la presenza stessa delle divinità, che interferiscono con le vicende degli uomini sebbene loro stessi siano sottomessi al fato, parla della consapevolezza di forze superiori e dell’irrazionalità della vita umana. Ma leggere Omero, per noi europei del Mediterraneo, è molto di più: è ascoltare la voce calda e profonda di un nonno, che, come un aedo, mentre siamo sulle sue ginocchia, ci canta le storie dei nostri avi.
Quest’opera mi ha fatto emozionare, mi ha fatto divertire, mi ha fatto commuovere. Soprattutto mi ha sorpreso, e non lo avrei creduto possibile per una vicenda di cui, apparentemente, sapevo tutto. In primo luogo sorprende l’incredibile capacità del narratore di trascinarci all’interno della storia, nel turbine di una guerra spietata e violenta, di cui non ci sono risparmiati i particolari più cruenti, grazie ai quali ci sembra di essere proprio lì: di bruciarci gli occhi in mezzo alla polvere sollevata dai cavalli, di sentirci addosso il sangue fresco e viscoso dei caduti, di assordarci fra le urla dei guerrieri che incitano alla battaglia. Non arrendersi è la parola d’ordine, mostrarsi vili fa molta più paura della morte.
Certamente noi oggi non condividiamo la stessa “passione” per la guerra, eppure anche questa fa parte della nostra storia. D’altra parte sono ancora lontani i concetti di sacrificio e di patria (unica eccezione Ettore che per primo li introduce). Nell’Iliade non si combatte per un ideale, il rapimento è un mero pretesto, e gli Achei stessi non sono “un popolo”, ma un’alleanza temporanea di regni indipendenti sotto la guida di un capo, di cui si riconosce l’occasionale legittimità, ma non la reale superiorità. Proprio da questo precario equilibrio nasce l’ira di Achille, intorno a cui è costruito l’intero poema. Sotto le mura di Troia si combatte per la gloria, ma soprattutto per le ricompense materiali, le sole che inducano i singoli guerrieri a mettere a repentaglio la propria vita. E la negazione di questa legittima ricompensa, riconosciuta dalla collettività per i propri incontestabili meriti, farà infuriare Achille, l’incarnazione dell’orgoglio e dell’ostinazione quanto Agamennone lo è della tracotanza e della vanagloria.
Un altro aspetto che mi ha colpito, di sicuro molto più vicino alla nostra sensibilità attuale e propriamente "occidentale”, è l’importanza attribuita alla retorica, intesa non in senso negativo, ma nel suo significato originario di “arte della parola”, che non resta fine a se stessa ma si traduce in atti. I più spettacolari duelli sono sempre accompagnati da capolavori di retorica, in cui ognuno dei due contendenti esalta il proprio valore, riferendosi quasi sempre alle vicende della propria stirpe (di cui spesso fa parte una qualche divinità), e predice all’avversario una morte certa. È interessante notare che persino gli dei, a eccezione dei rari momenti in cui si uniscono al combattimento o quando usano patetici trucchi da palcoscenico per salvare i loro beniamini, si limitano a forme di “incoraggiamento” verbale, che sole bastano a infondere agli uomini una forza soprannaturale.
A questo proposito bisogna riconoscere che non si possono comprendere i poemi omerici senza fare i conti con le divinità, ragion per cui non amo particolarmente le rivisitazioni moderne che eliminano o snaturano questo elemento imprescindibile. Gli dei nell’Iliade, oltre ad essere fondamentali per lo svolgersi dei fatti, introducono quell’ironia senza la quale ci troveremmo di fronte a una storia in cui c’è ben poco da sorridere. Al contrario i conflitti fra gli dei di serio e solenne hanno solo le apparenze; sembra anzi che il poeta si diverta a ridicolizzarli: spassosissimi i battibecchi fra Era e Zeus, secondo la migliore tradizione moglie/marito (con lui che blatera di essere il padrone e lei che gliela fa ogni volta sotto il naso), per non parlare di Poseidone, che per quanto sia costretto a sottostare ai voleri del fratello, non accetta di riconoscere la sua superiorità. La vera comicità sta nel fatto che, trattandosi di dei e pertanto immortali (sebbene possano non solo combattere, ma persino essere feriti e perdere “l’icore”, una sorta di sangue divino) i loro scontri siano sempre limitati: le minacce che si lanciano l’un l’altro sono iperboliche, ma i frutti di questi litigi sono perlopiù ridicoli, come quando Zeus per punire Era dell’ennesimo inganno la tiene sospesa per i piedi fra cielo e terra. Insomma, il vero dramma si consuma fra gli uomini, non certo fra gli dei, che pure tifano e soffrono per loro (ma che si schierano da una parte piuttosto che dall’altra a seconda di quanto siano stati onorati nei sacrifici, o a causa di beghe che nulla hanno a che vedere con l’umana stirpe).
Il dramma degli uomini invece è profondo e insanabile; le pagine più toccanti del poema sono quelle in cui l’uomo si mostra in tutta la propria fragilità: l’addio di Ettore e Andromaca, la supplica di Priamo di fronte all’uccisore del figlio. Non ci sono dubbi che, vittime di forze soprannaturali che non possono controllare e che spesso si manifestano in veri e propri inganni, gli uomini, siano essi greci o troiani, costretti come sono a subire un destino spesso ingiusto e crudele senza per questo perdere la propria dignità, ma anzi affermandola sopra ogni cosa, sono vinti e vincitori.