Questo romanzo è stata una vera sorpresa per me: limpido, poetico, intenso. Faccio fatica ad “innamorarmi” di libri del genere, eppure ammetto di essere stata conquistata sia dallo stile – pagine di pura poesia, in cui la descrizione della natura, del cielo e degli agenti atmosferici, vento in primis, si accorda perfettamente allo svolgersi della storia – sia, appunto, dalla narrazione vera e propria.
Canne al vento è un romanzo fatto di sentimenti, di legami, di desideri repressi ma mai estinti, di spiriti, di vivi e di morti. É una storia in cui i vivi hanno “paura di farsi sentire a vivere” e i morti sono come gli spiriti notturni che abitano le campagne: presenze reali, ingombranti, da temere e rispettare. Perchè, così dice lo spirito di donna Maria Cristina, “il cuore dei morti rimane ai vivi”.
E tutta la storia, a ben vedere, è un continuo contendersi il palco fra il mondo dei vivi e quello dei morti, fra passato e presente, fra “cose perdute da lungo tempo, da lungo tempo piante e desiderate e poi dimenticate e poi finalmente ritrovate quando non si ricordano e non si rimpiangono più”.
In questo senso emblematiche sono le figure di due donne, due sorelle: Noemi – che nel riso beffardo e negli occhi “crudeli” nasconde tutta la propria disperazione di donna che avrebbe voluto amare – e la defunta Lia, colei che ha avuto il coraggio di abbandonare tutto pur di non rinunciare a vivere. E questa sua scelta, sofferta e gravida di conseguenze per il resto della famiglia, è qualcosa che donna Noemi non può perdonarle, neanche dopo morta, perchè lei stessa, fino alla fine e nonostante l’apparente felice epilogo, non è mai riuscita a fare altrettanto.
Nel solco lasciato da questa muta battaglia si inserisce Giacinto, la cui importanza come figura è accentuata dal suo essere appunto il figlio di donna Lia, la ribelle. Giacinto fa risorgere, in casa Pintor e nel cuore di donna Noemi , la brama di vita che già era di sua madre. E non importa se il prezzo da pagare per la sua incoscienza è alto: anche quello della fuga di donna Lia lo era stato; ma è la vita che, timida, cerca il proprio debole riscatto.
Insomma, a ben vedere la Deledda ci racconta molto di più di uno stralcio dell’esistenza di tre dame cadute in disgrazia. Il vero filo conduttore è questo bisogno, frustrato, ostacolato, soffocato da se stessi più che da altri, di “andare oltre”:
“Anche Noemi si stancherà della sua croce d’oro e vorrà andare lontano, come Lia, come la Regina di Saba, come tutti...” Ma questo non gli destava più meraviglia; andare lontano nelle altre terre, dove ci sono cose più grandi delle nostre. Ed egli andava.
Chi è questo personaggio che “va”? L’ho lasciato per ultimo ma solo perchè sia messo ancora più in risalto il suo valore, la sua centralità dentro la storia e dentro il romanzo: è Efix, il servo fedele, il “servo che nessun compenso al mondo poteva retribuire”, colui che “sentiva d’essere di nuovo davanti al destino tragico della famiglia alla quale era attaccato come il musco alla pietra”. Efix non è solo il simbolo della devozione, della totale abnegazione. È attraverso di lui che a noi lettori è dato di accostarci a tutto ciò che accade, è attraverso la sua sensibilità che noi comprendiamo le dinamiche fra tutti i personaggi e scopriamo dei retroscena di cui lui è il solo detentore. É soprattutto attraverso di lui che passa il messaggio profondo del libro,tutto racchiuso nella forza di quelle canne che si piegano ma non si spezzano.
“Perchè la sorte ci stronca così, come canne?”
“Sì,”, egli disse allora, “siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perchè! Siamo canne, e la sorte è il vento.”
“Sì, va bene: ma perchè questa sorte?”
“E il vento, perchè? Dio solo lo sa.”
“Sia fatta allora la sua volontà”.
Ma Efix non è solo strumento che si offre agli altri personaggi e a noi lettori: ha anche una sua personalità, ha una propria vita e un proprio destino, che egli segue coraggiosamente e instancabilmente, anche a costo di abbandonare la propria “famiglia” (come aveva fatto donna Lia prima di lui) per mettersi in cammino da solo, alla ricerca di una risposta che lo renda finalmente libero.
Chiudo con un briciolo della poesia che la Deledda mi ha regalato nelle sue pagine, affermando che l’intero suo romanzo è pieno di “tutta la frescura della sera, tutta l’armonia delle lontananze serene, e il sorriso delle stelle ai fiori e il sorriso dei fiori alle stelle, e la letizia fiera dei bei giovani pastori e la passione chiusa delle donne dai corsetti rossi, e tutta la malinconia dei poveri che vivono aspettando l’avanzo della mensa dei ricchi , e i dolori lontani e le speranze di là, e il passato, la patria perduta, l’amore, il delitto, il rimorso, la preghiera, il cantico del pellegrino che va e va e non sa dove passerà la notte ma si sente guidato da Dio, e la solitudine verde del poderetto laggiù, la voce del fiume e degli ontani laggiù, l’odore delle euforbie, il riso e il pianto di Grixenda, il riso e il pianto di Noemi, il riso e il pianto di lui, Efix, il riso e il pianto di tutto il mondo.”