Non potevo non sentirmi attratta da questo libro, che non solo rappresenta una “porta aperta sulla Storia” (una delle mie “passioni letterarie” oltre a quella per gli scrittori ebrei) ma lo fa raccontando un evento che si è svolto poco più di 70 anni fa nella mia terra d’origine, la Puglia. E poi mi ha incuriosito la struttura dell’opera, divisa nettamente in due parti, due voci, due punti di vista: a Milena Agus “la tragedia privata delle sorelle Porro”, a Luciana Castellina “il coro della moltitudine che passa sulla terra, sulla sua terra (che è anche la mia terra, appunto) senza lasciare traccia.”
A partire è Milena Agus, con il suo approccio creativo-narrativo. Un apporto fondamentale, il suo, perché, come ammette lei stessa “anche se soltanto la Storia è degna di indagine e offre una tale abbondanza di eventi memorabili da rendere superfluo l’inventarne altri, solo il romanzo può ricostruire quanto la Storia non tramanda nei documenti e rivelare tramite l’immaginazione e la simpatia la parte di Storia che è andata perduta.” E ciò che è andato perduto è “la quotidianità” delle protagoniste, di cui l’io narrante (un’immaginaria compaesana andriese di buona famiglia, intimamente “ribelle” ma incapace di dare concreta attuazione ai suoi propositi passionali e filantropici) pensava spesso che “non servivano a niente”.
In questa semplice frase è racchiuso tutto il valore, o l’assenza di valore, della loro vita. “Non servivano a niente” queste quattro sorelle, di cui una sola si maritò in tarda età, appartenenti a una famiglia di ricchi proprietari terrieri e che tuttavia sembravano indifferenti alla loro stessa ricchezza, ignare (e fu questa probabilmente la loro colpa più grande) della loro posizione di “privilegiate” in un’Andria segnata dalla povertà e dal sempre più crescente senso di rivolta delle masse.
Nessuna scintilla sembra aver mai acceso la loro vita: non l’orgoglio di casta fine a se stesso, né la passione amorosa, né il desiderio di ribellarsi alle severe imposizioni per seguire una propria strada, nulla. Donne di Chiesa e di preghiera, discrete e modeste, la loro unica preoccupazione sembra essere la fedele custodia della proprie origini attraverso il ricordo e soprattutto il tramandarsi delle “buone maniere”, quelle esteriori e formali ma anche quelle interiori: educazione, sobrietà, moderazione, riservatezza. Le une e le altre inutili, come erano inutili loro. Inutili e innocue. Innocenti.
Eppure il 7 marzo del 1946 le sorelle Porro hanno pagato a caro prezzo la loro innocenza e la loro inutilità: essere quello che erano bastava a renderle colpevoli agli occhi di una folla disperata e inferocita, a cui bastò udire uno sparo proveniente apparentemente dal tetto del loro palazzo per scatenare l’inferno. Delle quattro sorelle, due pagarono con la vita, le altre due furono trascinate, malmenate e abbandonate per strada come rifiuti, ma riuscirono a salvarsi. E pur salvandosi, non capirono. Fedeli a se stesse e alle sorelle morte, preferirono cancellare l’eccidio dalla loro mente e non rendersi conto che tutto era cambiato per sempre.
Inizia quindi il racconto di Luciana Castellini. La cesura è netta, non si fa nulla per nasconderlo: si parla di Storia, di fatti, di ciò che è accaduto ben prima del 7 marzo 1946. Perchè per comprendere le ragioni di quella folla inferocita che ha ammazzato le sorelle Porro senza alcuna pietà, bisogna tornare indietro, almeno a quell'8 e 9 settembre 1943 in cui rispettivamente fu firmato l’armistizio e il re d’Italia, Badoglio e pochi altri scapparono da Roma per insidiarsi a Brindisi, dando vita non solo al cosiddetto Regno del Sud, ma di fatto a una vera e propria guerra civile. Non starò qui a riportarvi tutti gli eventi più importanti e le loro conseguenze, lo fa già troppo bene la Castellina e vi rimando a lei. Quello che però mi ha colpito è l’aver compreso quanta parte hanno avuto il contesto geografico e sociale, nonchè la terribile situazione di incertezza politica che ha seguito l’armistizio, in ciò che è accaduto non solo negli anni ma persino nei decenni successivi, e forse tuttora. Mi sono resa conto che era difficile sentirsi “combattenti per una causa” quando questa causa non si sapeva bene quale fosse e poteva cambiare da un accordo politico all’altro. Ma soprattutto, più importanti delle alleanze o degli orientamenti politici (fondamentale in questo senso è il progressivo affermarsi del comunismo nel meridione) c’era la fame, l’ignoranza, il mercato dei braccianti. Una pagina di Storia di cui non dico che non sapessi nulla, ma che ho riscoperto. Ed è stato come riscoprire una parte di me stessa. Perchè siamo un pezzetto della nostra terra, delle nostre origini, e mi ha sicuramente toccato sentir parlare di Andria, Corato, Barletta, Bari, io che così poco ho letto di libri ambientati in Puglia.
Per cui sono davvero soddisfatta, soddisfattissima di questa lettura che mi ha regalato un’occasione così preziosa. Che bello leggere.
“È la fame che si fa violenza e chiede vendetta. La chiede ai Porro perchè sono parte della classe che li ha sfiniti. Non importa se a sparare siano state proprio loro o altri come loro. Sono colpevoli per storia.”
“La Puglia era povera non solo di pane, ma di stato.”
“La guerra in Puglia era terminata da un pezzo e la liberazione non veniva avvertita. La storia della regione rimase a sè . qui non c’era la pace, qui proseguiva una guerra civile più cattiva di quella precedente.”
“Il mondo era cambiato nel '46 ma loro, i proprietari terrieri, non se ne erano accorti, non lo avevano capito.”
“Dei tanti eccidi che dal '43 avevano insanguinato la regione, questo appare il più terribile e il più incomprensibile proprio perchè non fu perpetrato da un manipolo di sicari o di facinorosi, ma fu sostenuto da una folla , dai poveri dell’intera Andria”