Il mondo delle parole

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Ho spostato qui la discussione che si era ramificata dall'altro thread per darle dignità di albero. :)

Il titolo "Il mondo delle parole" è citazione da uno dei post scritti.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Do il mio piccolo contributo: la parola per me è di certo inganno e dissimulazione, distorce il pensiero, lo ingabbia e lo riduce spesso all'ombra di sè stesso, se poi il pensiero stesso è autoinganno la parola è finta, falsa, ridicola.
La parola riduce o amplifica, minimizza o non aderisce, non esprime spesso il mondo interiore, il flusso di pensiero, a meno che non sia arte, poesia.
La parola poi è solo una piccolissima parte della comunicazione, tutto il resto, quello che conta veramente, la maggior parte delle volte non è verbale.
 

Nikki

New member
Mi è piaciuta talmente tanto che la ripropongo..:??

"La taceva, così, almeno, ho lungamente creduto, io che a quel tempo mi figuravo ancora che la verità si comunicasse agli altri con le parole." (Proust)
 

Nikki

New member
L'accusato non ha se non parole.
E talvolta non ha, anzi non vuole
sotto il sole le sole parole.


(S. Penna)
 

Dayan'el

Σκιᾶς ὄν&#945
probabilmente saremo meno d'accordo se spostiamo il tiro del discorso: intendo dire che io intendo la " parola" come frattura tra la nostra conoscenza e il mondo. E' un intermezzo che non aderisce al reale ma e' l'unico modo che abbiamo a nostra disposizione.
Come i sensi del resto.

A me quanto quotato pare apodittico.
La parola è l'ospite delle nostre esperienze, al suo interno chiunque ritrova solo e soltanto quel che lei lascia filtrare dal mondo, ed è naturale che la comprensione tra uomini possa avvenire nel suo dominio. D'altra parte il concetto fondamentale di ogni costruzione del pensiero è l'isomorfismo tra sistema e realtà. La parola è soltanto (come se fosse poco) una relazione istituita con mezzi assai scarsi - leggasi i sensi. Senza dubbio è il termine fondamentale, il terzo incomodo che consente conoscenza, per quanto può.


Mr. Rufo ha scritto:
la ragione determina la sua visione e la trasmette al pensiero , che a sua volta la trasmette al " dire"

Chiarissimo ed indubbiamente vero, tuttavia il discorso è ribaltabile, ed io potrei dire:

La ragione determina la sua visione e la trasmette al pensiero , che a sua volta la trasmette al "fare".

Oppure no?
 

sergio Rufo

New member
si, anche al " fare " , perche' no?
Nessuno lo mette in dubbio.

Poi per fare un passo in la': cosa s'intende per fare? e in quale modo si fa?
Agire: nella volizione di un'azione, o nella sua intenzione, concorrono necessariamnte mille componenti.
Il pensiero ha gia' fatto da filtro e questo potrebbe determinare un " agire" non piu' autentico.
 

Lucripeta

New member
La parola è un'arma e non sono le armi ad uccidere ma chi le impugna.
Scrive Guareschi che se l'uomo non avesse il dono di parlare troverebbe il modo di bestemmiare coi gesti.

E' scritto poi : "Il vostro dire sia: si, si, no, no. Il di più viene dal maligno" ma le parole sono strumento per esprimere animo e pensieri. Penso che intendesse "Il dire della vostra anima..."

Sta all'uomo diffidare da chi riesce a far passare bianco per nero e viceversa. Voi ci riuscite?
 

asiul

New member
La parola è un'arma e non sono le armi ad uccidere ma chi le impugna.(...)

Sta all'uomo diffidare da chi riesce a far passare bianco per nero e viceversa. Voi ci riuscite?

..e non tutte le armi servono ad uccidere.

A volte sì, atre volte no, ma nel secondo caso non me ne accorgo o quando accade è già successo. Come presupposto nessuno dovrebbe riuscirci in tempo, altrimenti il nostro signor x non potrebbe con successo far passare bianco per nero e viceversa. O no?:??
 

sergio Rufo

New member
luisa, certo, dipende dai punti di vista personali.
Il mio, in linea generale, e' che ogni agire sia profondamente irrazionale, proprio perche' puramente istintivo.
Se intendi l'agire come " forza" o " energia" , allora, sono per un agire irrazionalistico.
Certamente non dimentico che il fare sia propriamente un atto sociale, anche. Un atto storico, un atto esistenziale, un atto giustificato da causa ed effetto.
Ma e' proprio la relazione causa ed effetto che dis-autentica l'agire puro.
Se vi e' una causa al nostro agire per ottenere un effetto, e' intervenuto un accomodamento all'istinto.
E perde autenticita'.
L'agire deve essere senza perche' se vogliamo intenderlo in senso vitale.

Un po' come dire: se in una discussione animata con una persona o in una qualsivoglia situazione, a noi d'istinto viene da deteminarci in un " atto" di forte nervosismo ( un gesto di stizza, un gesto violento,ecc.ecc) probabilmente il dovere di rispettare un decoro imposto dal buon comportamento , ci portera' a " reprimere" quell'agire nervoso per darci un contegno. Ma quel " nervoso" e' solo un aggettivo che aggiungiamo noi.
Qui la causa e': l'etichetta.
L'effetto: mostrarci agli altri educati.

Come vedi si e' messa in moto la " recita". La nostra azione non e' piu' immediata, non aderisce piu' alla sua risorsa piu' naturale.
Insomma: abbiamo messo una maschera all'agire stesso.

Un ultima cosa: la relazione causa ed effetto, essendo una sovrastruttura logica, in generale, e' sempre una devianza dall'autenticita'.
 

asiul

New member
:wink:
luisa, certo, dipende dai punti di vista personali.
Il mio, in linea generale, e' che ogni agire sia profondamente irrazionale, proprio perche' puramente istintivo.

Anche per me l'atto è de-pensato.Ma qualsiasi atto,nel momento in cui si compie lo è. Bisogna abbandonare il pensiero altrimenti non potresti compiere l'atto che è immediato e privo di tempo.
Come affermava C.B. ogni atto è sprogettato dal progetto (l'azione).

Se intendi l'agire come " forza" o " energia" , allora, sono per un agire irrazionalistico.
Certamente non dimentico che il fare sia propriamente un atto sociale, anche. Un atto storico, un atto esistenziale, un atto giustificato da causa ed effetto.
Ma e' proprio la relazione causa ed effetto che dis-autentica l'agire puro.
Se vi e' una causa al nostro agire per ottenere un effetto, e' intervenuto un accomodamento all'istinto.
E perde autenticita'.
L'agire deve essere senza perche' se vogliamo intenderlo in senso vitale.

Nel compiere l'agire devi abbandonare l'azione. ovvero l'atto gustificato, la sua storicizzazione.

Es."si deve uccidere Cesare" (azione)ecco l'"etica" ,l'atto giustigicato.Nel momento di agire devi sospendere l'azione altrimenti non potresti uccidere (l'atto). Devi de-pensare , sprogettare l'atto.

Un po' come dire: se in una discussione animata con una persona o in una qualsivoglia situazione, a noi d'istinto viene da deteminarci in un " atto" di forte nervosismo ( un gesto di stizza, un gesto violento,ecc.ecc) probabilmente il dovere di rispettare un decoro imposto dal buon comportamento , ci portera' a " reprimere" quell'agire nervoso per darci un contegno. Ma quel " nervoso" e' solo un aggettivo che aggiungiamo noi.
Qui la causa e': l'etichetta.
L'effetto: mostrarci agli altri educati.

Come vedi si e' messa in moto la " recita". La nostra azione non e' piu' immediata, non aderisce piu' alla sua risorsa piu' naturale.
Insomma: abbiamo messo una maschera all'agire stesso.

Un ultima cosa: la relazione causa ed effetto, essendo una sovrastruttura logica, in generale, e' sempre una devianza dall'autenticita'.


Tutto questo per dirti che anche quando il nostro agire è come tu affermi instintivo, noi prima di compiere l'atto lo progettiamo. Gli diamo una sua storicità per giustificarlo.

Detto ciò l'atto (per me) è sempre (paradossalmente) autentico.

Tutto chiaro?:mrgreen:
 

Zefiro

da sudovest
un'idea d'accademia

Però… In effetti è un’idea…

Togliamo ogni sovrastruttura, puntiamo all’autenticità. Ci capita d’esser nervosi? Esplicitiamolo, senza mascherare, niente recite, perché non “regalare” all’interlocutore il nostro autentico io? Con tutta probabilità farà altrettanto naturalmente. I toni si alzeranno, chi sa fin dove, con costrutto ed esiti da analizzarsi, fruttuosi o meno non saprei, ma certamente veri, “nature”.

Non so… a me lascia perplesso questa tinta in negativo e per definizione deformante dell’essere o dell’agire, di ciò che è sovrastruttura al naturale, all’istinto, all’ontologico vitale. Le leggi? I costumi? Le parole? Il vivere civile? L’educato portarsi? L’urbanità dei modi? Fate voi.

Le sovrastrutture possono avere (e ben spesso hanno in verità) risvolti esiziali questo è fuor di dubbio. Neanche si discute. Fino alla completa falsatura del tutto e completa mutazione sovversiva del reale vero. Ma al solito, dipende essenzialmente dall’uso che si fa del mezzo.

L’idea insomma è accattivante assai, ma di scarsa, anzi nulla applicazione e rilevanza pratica. Da platonica accademia mi verrebbe da dire. Riusciamo davvero ad immaginare il nostro esistere senza parole? O, più in generale, senza sovrastrutture?

Perché in radice le sovrastrutture sono invece la modalità, il mezzo, con cui più esseri umani si mettono d’accordo su come relazionarsi, come entrare in reciproco contatto, quasi uno stabilire, in qualche modo un concordare la lingua con cui comunicare affinchè ci si possa intendere. Sono costruzioni di somma utilità, a mio modo di vedere. Di più. Necessarie ed ineliminabili.
Alterano? Falsano? Intrinsecamente introducono cesure? Forse. A volte sicuramente si.
Ma la risposta vera, in realtà è: “dipende”.
Dipende se 'si' oppure 'no', probabilmente di natura intrisecamente almeno un pochino 'si', e, infine quando 'si', in che misura.

Nulla è più convincente di un solido ed argomentato ragionamento pacatissimo ed a bassa voce.
Che si fa, esprimiamo ad istintivi gesti ciò che dobbiamo/vogliamo comunicare o utilizziamo il rischiosamente deformante strumento della parola?
Senza leggi (scritte) saremmo alle mani ed oltre ogni tre per due e sostanzialmente solo le muscolature più dotate avrebbero la meglio. Non mi sentirei peraltro d’affermare che il vero desiderio di ciascuno (mediamente) non sia il vivere, per quanto possibile, in armonia coi propri simili piuttosto che in una perenne giungla.
E così via...

Senza insomma, la vedo dura. Far a meno delle sovrastrutture (utilizzate a modo) intendo, anzi durissima. Ed alternativa pratica non saprei davvero immaginare. Senza, temo che al rango di bestie poco più poco meno saremmo rimasti, per semplice impossibilità di comunicare seriamente. Non necessariamente la filtratura relazionale introduce una reale ipocrisia, o, meglio un reale scostamento con la sostanza vera, dell’essere e/o dell’agire. Essa è in realtà la traduzione in una sorta di lingua comune, funzionale all'intendersi.

Perché lo scostamento, quello di sostanza ed inaccettabile, tipicamente è una sovrastruttura che provvediamo a mettere noi. Ben spesso con intenzione... ma questo va da sé.

Come va da sé che da noi dipende, ( e questo per pigrizia, ignavia ed umano limite è ben più difficile…) il non far diventare sostanza di noi ciò che è necessaria forma e propinare all'altro, nel comune linguaggio, non il linguaggio ma noi.
 
Ultima modifica:

sergio Rufo

New member
Zefiro, tu hai ben descritto quello che infatti accade tra gli uomini. Hai descritto una necessita'.
Ma si sa: l'io stesso e' un errore grammaticale e l'esserr-ci ha bisogno della " menzogna".

Per quanti riguarda, invece, la convinzione che un ragionevolissimo e pacato ragionamento serva piu' di ogni altra cosa, la lascio a te. Io mi affido alla testimonianza della storia: da duemila anni gli uomini continuano a non intedersi laddove non vogliono farlo ( per motivi innati) pur facendo mille bei discorsetti, anzi, milioni di bei discorsetti.
 

sergio Rufo

New member
Be', luisa, proprio tutto chiaro no, dovresti spiegarmi.
Non riesco infatti a capire cosa intendi dire quando dici :
Nel compiere l'agire devi abbandonare l'azione. ovvero l'atto gustificato, la sua storicizzazione.

Non capisco.
 
La parola è sempre seduttiva, la si pronunci o la si taccia.
Vero istinto è l'azione che non può tener conto di alcun codice.
L'educazione? Basta leggere Thoreau nel suo magnifico Walden per comprendere che non serve a nulla.
 

D.Rodello

New member
già che ci siamo...

sarebbe opportuno chiarirci che è educazione?


L'educazione non serve a niente:
dite che lo pensa anche donna Gelmini ?
 

Zefiro

da sudovest
Zefiro, tu hai ben descritto quello che infatti accade tra gli uomini. Hai descritto una necessita'.
Ma si sa: l'io stesso e' un errore grammaticale e l'esserr-ci ha bisogno della " menzogna".

Per quanti riguarda, invece, la convinzione che un ragionevolissimo e pacato ragionamento serva piu' di ogni altra cosa, la lascio a te. Io mi affido alla testimonianza della storia: da duemila anni gli uomini continuano a non intedersi laddove non vogliono farlo ( per motivi innati) pur facendo mille bei discorsetti, anzi, milioni di bei discorsetti.

O beh...certo che è una necessità. Ci mancherebbe. A cos'altro vogliam rispondere se non alle nostre necessità? Ed appare ben impellente il poter comunicare, entrare in relazione con l'altro.. questo si, ontologico. Per cos'altro se non per profondissime necessità ci saremmo dovuti ingegnare nel metter in piedi strutture di questa fatta e portata? Il fatto che storicamente ciò sia accaduto, la dice lunga sull'urgenza di questo tipo di necessità.

E mi chiedo: altrimenti, cosa? Isolate, instintive e vitalissime (sic!) monadi? Dove si vuol andare a parare? Per questo mi sembra discussione d'accademia. Interessantissima invero, per capire, e non è poco davvero, interrogarsi e provare a capire hanno un valore in sè, ma a fini pratici d'accademia.

Sulla testimonianza di duemila (e oltre in verità) anni di storia, impossibile non convenire naturalmente.

Il punto è: è questo quel che vogliamo? Che questa fatta di testimonianza persisterà per sempre, nessun dubbio: altrettanto ontologica la bestia. Ma talvolta, sporadicamente, capita altrimenti. Con sforzi inenarrabili, (la bestia è ben potente, innata, come non convenire?) ma capita, è capitato e, sperabilemente capiterà ancora. Pochissime volte, una sola volta forse. Tentare vale la pena. Una vita, una sola vita. Per caso, nelle more dello scontro, in una pausa accidentale perchè si è provato. Ne vale la pena. Trovo sia un ben degna battaglia. A parer mio ovviamente. Non peraltro, potrebbe essere la mia di pelle ed un po' ci tengo. O quella di qualcuno del quale è impossibile fare a meno. Il che sarebbe peggio. E' più forte di me, mi viene sempre da immedesimarmi un po' quando si cede senza combattere a millenarie testimonianze, a meno di volersi chiedere per chi è che suona la campana.
 
Ultima modifica:

asiul

New member
Be', luisa, proprio tutto chiaro no, dovresti spiegarmi.
Non riesco infatti a capire cosa intendi dire quando dici :
Nel compiere l'agire devi abbandonare l'azione. ovvero l'atto gustificato, la sua storicizzazione.

Non capisco.

Vediamo se riesco ad essere più chiara.

Il compimento dell'agire è l'atto. L'atto (es. uccidere) non ha tempo, non ha storia, perché immediato.
L’atto e l’azione sono due fasi distinte dell’agire umano.
L’azione è il progetto (bisogna uccidere Cesare perché...), preesistente al concetto dell’atto.
L’atto è l’esito fuori dall’azione. Alla coscienza appartiene l’azione e non l’atto, di cui il soggetto ha conoscenza a posteriori.



 
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