Incipit:
" Norcia, aprile 2017
Dopo le rovine dei paesi non si videro più uomini e la montagna si fece aspra e solitaria. Da una sella battuta dal vento iniziammo a scendere nella nebbia per un canalone innevato, e fu alla fine di quella discesa che il Sole squarciò il grigio, sfolgorante in un cielo pervinca, svelando sulla destra i monti immacolati della maga Sibilla e, sulla sinistra, in un mormorio di ruscelli nel disgelo, un'ampia, inattesa conca quasi mongolica, coperta da una moquette di erba rasa, disseminata di crochi, ellebori e cuscini di primule, protetta da ogni lato da un cornicione di alture.
Quella distesa incantata e invisibile dal basso, chiamata Pian Grande, dove l'unico modo di camminare in quel mese d'aprile era andare scalzi per meglio sentire la voce della Terra, quella prateria già serpeggiante di vita che a maggio avrebbe conosciuto la più celebrata fioritura d'Europa - il giallo, il viola, il rosso e l'azzurro delle lenticchie, dei papaveri e degli iris -, era il centro della linea di faglia che aveva scosso l'Appennino e allo stesso tempo il centro perfetto della Penisola che stava in mezzo al Mediterraneo.
Sapevamo che, mille metri sopra i pascoli, sulla cresta nevosa di un monte cui era stato dato il nome di Redentore, forse per rabbonire le divinità del Profondo, sarebbe stato possibile vedere a nord-est la tavola blu dell'Adriatico e a sud-ovest, oltre il Terminillo, la costa del Terreno. Ma nello stesso tempo era visibile sul pendio - bianco e regolare come l'Ararat e l'Etna - la lunga cicatrice d'Appennino che, cavalcando la scarpata a mezzacosta, ammoniva gli umani grazie a uno smottamento della neve che denudava la roccia. In fondo alla conca l'unico abitato, la rocca di Castelluccio ridotta in macerie, ne confermava la sovranità assoluta.
Eravamo magnificamente soli, unica presenza viva in quella distesa tibetana, e vivevamo quel privilegio con inquieta e guardinga euforia. Non c'era nulla di simile sulle Alpi. Nessun luogo dove paura e incantamento, inferno e paradiso, tellurico e fertile, tenebre e luce, si sposassero in modo così intimo per garantire il ciclo vitale. Pensai che era quello sposalizio a dover essere narrato, prima che la sagra di primavera ricominciasse. Ero cresciuto sulle Alpi, ma era stato l'Appennino a sedurmi nella maturità: e quella montagna antica, medievale, femminile, barbarica, dai sapori forti, era diventata la mia seconda patria.
Vita dappertutto, aria satura di trilli, fischi e cinguettii. Nei ruscelli, rospi in accoppiamento. Le talpe avevano ripreso a scavare, lasciando sull'erba vellutata monticelli di terra bruna allineati come punti di sutura. Era un lusso assistere a tutto ciò in perfetta solitudine, un lusso reso amaramente possibile solo dal terreno militarizzato per l'emergenza terremoto. A Castelluccio non era consentito piantar tende, nemmeno camminare senza permesso. Anche il turismo più eco-compatibile e pionieristico era bandito, per motivi di sicurezza. Sicurezza, tormentone del secolo, che Dio la maledica. Ma noi avevamo un passaporto speciale per il paradiso, e vi entravamo in un momento irripetibile: con la piana ancora avvolta nel silenzio invernale e l'esplosione già in corso dei pazzeschi colori di primavera.
Era una suite di neve, stelle e praterie. Il grembo di un mondo che era stato capace di partorire mille volte un nuovo inizio. Almeno da quando, migliaia di anni fa, i popoli dell'Asia centrale erano scesi qui con i loro armenti e le loro sementi - farro, cicerchia, e con essi i fiori selvaggi che qui avevano trovato un habitat unico al mondo -, intuendo che Persefone e Cerere, la dea degli inferi e quella delle messi, si davano la mano sulla cordigliera che faceva da colonna vertebrale del mondo nuovo. Un mistero celebrato da una terza femmina: la Sibilla, dea madre sibilante, padrona della Terra di mezzo.
Salimmo verso il cornicione della conca, fino a un passo dove la vista si spalancò sul Terminillo, il Gran Sasso, la conca di Assisi. Tolte le scarpe, fu tempo di merenda, pancia all'aria nell'erba rasa, con la brezza tra le dita dei piedi. Dietro di noi si srotolava il gomitolo del sisma nel mondo degli umani. Le montagne erano rimaste, il resto non c'era più. Avevamo attraversato a piedi una sequenza di paesi distrutti, rimasti in balìa di una tempesta di stratigrafie, aggrappati a un terreno simile a una torta millefoglie.
In una viabilità impossibile, sopravvivevano i sentieri, come mille anni fa, e noi eravamo entrati nel cuore vivo della distruzione. Amatrice era Bosnia in guerra: strade deserte, sfollati, mimetiche, odore di kerosene e miseria, contiguità di case intatte e case polverizzate. Si percepiva un pericolo onnipresente, ma anche l'esempio tutto italiano di una macchina burocratica capace di “uccidere” più del terremoto ostacolando i ritorni con regole e divieti. Nella devastazione, il paradosso di una natura già in fregola, con i fari nella sera che illuminavano centinaia di rospi intenti a copulare sull'asfalto ancora caldo.
Rivedevo la terra sbadigliare come mascella di Leviatano, la terra negra che ci era venuta incontro con l'orrore tombale dell'epicentro. In certi posti lo sventramento era stato tale che sarebbe bastato uno starnuto a produrre altri crolli. Eravamo passati col fiato sospeso, abusivamente, in punta di piedi, tra mura pericolanti e tegole appese al nulla. In mezzo a canaloni, sterpaglie e praterie, Cornillo Vecchio e Rocchetta sventrati, oscenamente aperti sull'intimità delle case. Tendine di pizzo, letti, librerie, culle, lampadari, biancheria ad asciugare. E la natura che anche lì teneva duro, se ne fotteva degli uomini. Vento, silenzio, cinguettio, mitragliare di picchi nel bosco.
San Lorenzo e Flaviano, l'apocalisse. Nessuno in giro. Unico rumore, lo scricchiolio delle nostre suole. Case in muratura di una povertà sconcertante. La vecchia Salaria chiusa al traffico per frane con guardrail storti in modo abnorme dalla contorsione del monte e reti paramassi bombardate dai crolli. Pali della luce, tranciati a metà, oscillavano sul fiume, appesi come una teleferica ai fili della corrente. A picco sull'asfalto crepato, un'onda di marea fatta di pietra, un urlo solidificato del profondo. Oltre il fiume, un terreno disseminato di faglie attive.
Accumuli: un altro paese fantasma, sposalizio irreale di narcisi e macerie, e sopra il paese annichilito il colosso del Vettore, con l'inconfondibile forma di sella e il precipizio innevato incombente come un ferro da stiro sulla valle. Anche la salita verso il cuore dei Sibillini aveva chiesto il suo pedaggio di distruzione. Sperlonga, Arquata, Pretare ridotte in polvere. Molto peggio di Amatrice. Non più Bosnia stavolta, ma Afghanistan sotto le nevi indifferenti dell'Hindukush.
Fu dall'orlo della conca di Castelluccio che ci apparve Norcia, novecento metri più in basso. La visibilità era illimitata. Scendemmo a precipizio verso la città murata nel tramonto, tra cardi giallo paglierino e sterco di vacca vecchio dell'anno prima. Volavamo come col parapendio, con lunghe virate, a filo di una brughiera abrasa in più punti da rovinose frane. Dopo due ore di cammino, alle porte della città, mentre una magnifica luce giallo oro illuminava i mandorli in fiore, ricominciarono le rovine. Fuori dalle mura, un'umanità superstite: facce sannite, picene, greche, bizantine, longobarde, trasparente frutto italico di antiche migrazioni. Dentro le mura, il vuoto quasi totale. Un quadro di De Chirico.
Un monumento ai Caduti delle due guerre mi mise in mano un primo bandolo della matassa. Tra i nomi incisi su pietra, quello di un partigiano triestino, Sergio Forti, medaglia d'oro, ucciso da queste parti dopo inenarrabili torture. Pensai: ecco, quando mi chiedono come ridare senso al 25 Aprile, nomi come il suo mi dicono che viaggiare così, a piedi, nel maquis, è cosa giusta, perché ti fa entrare nella pancia dimenticata del Paese. Ti porta ad ascoltare gli Ultimi, le loro paure inascoltate, e anche a individuare la traccia immonda, inconfondibile, quasi olfattiva, del razzismo che rinasce come risposta a quelle paure. Ti fa capire che è ancora tempo di battaglia e che è giusto rispondere con durezza alle belve che si accaniscono contro i deboli e i vinti per scaricare in basso la rabbia che altrimenti colpirebbe chi sta in alto. Il Potere.
Eravamo intimiditi e taciturni, incerti se il nostro andare seguisse il filo delle ore, dei secoli o delle ere geologiche. “Sembrava Aleppo,” sentii dire da un indigeno della botta tremenda sulla città. Una frase che diceva involontariamente la parentela stretta fra gli sfollati del terremoto e gli esuli delle guerre. Uscimmo sulla piazza principale. Metà degli edifici si erano seduti su se stessi. Le rovine della Cattedrale erano illuminate di giallo dalle fotoelettriche. Dietro il rosone, la navata non c'era più.
Fu lì che vidi la statua, illuminata a giorno al centro della piazza. Mostrava un uomo dalla barba venerabile e dalla larga tunica, sollevava il braccio destro come per indicare qualcosa fra cielo e Terra. Era intatta in mezzo alla distruzione, e portava la scritta SAN BENEDETTO, PATRONO D'EUROPA. Fu un tuffo al cuore. Fino a quel momento non avevo minimamente pensato al Santo e al suo rapporto con Norcia, con il terremoto, con la terra madre del Continente cui appartenevo."
Il libro si apre con queste parole che dimostrano come, ancora una volta, Rumiz si riveli maestro nel catturare il lettore e creare suggestioni.
Leggere questo libro oggi, nel giorno in cui ancora quelle terre tremano, gli attribuisce ancora più valore.