La bellezza delle leggende legate alla natura

asiul

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La Farfalla bianca




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"In una casetta dietro il cimitero del tempio di Sozanji viveva un vecchio di nome Takahama. Era molto amabile e piaceva a tutti i suoi vicini, anche se molti di essi lo consideravano un po’ pazzo. A quanto sembra la sua pazzia consisteva semplicemente nel fatto che non si era mai sposato e non aveva mai mostrato desiderio di restare in intimità con una donna.
Un giorno di estate si ammalò tanto gravemente, che mandò a chiamare la cognata e il figlio di lei. I due arrivarono e fecero tutto ciò che potevano per dargli sollievo nelle sue ultime ore. Mentre lo vegliavano, Takahama si addormentò. Poco dopo una grande farfalla bianca volò dentro la stanza e si posò sul cuscino del vecchio. Il ragazzo cercò di cacciarla via, ma quella tornò tre volte, come se fosse riluttante ad abbandonare il malato.
Alla fine il nipote di Takahama riuscì a farla uscire in giardino e a farle attraversare il cancello fino a farla entrare nel cimitero, dove si posò sulla tomba di una donna e quindi misteriosamente scomparve.
Osservando la tomba, il giovane trovò il nome “Akiko” scritto su di essa, insieme a un epitaffio che raccontava come Akiko era morta all’età di diciotto anni. Benché la tomba fosse ricoperta di muschio e sembrasse costruita decenni prima, il ragazzo notò che era circondata di fiori e che il piccolo serbatoio dell’acqua era stato riempito di recente.
Quando il giovane tornò alla casa, Takahama era ormai spirato. Si rivolse alla madre e le raccontò quello che aveva visto nel cimitero.
«Akiko?» mormorò la madre. «Quando tuo zio era giovane, fu fidanzato con Akiko. La ragazza morì di tubercolosi proprio il giorno prima delle nozze. Quando lasciò questo mondo, tuo zio decise che non si sarebbe mai sposato e che avrebbe vissuto per sempre vicino alla sua tomba. Per tutti questi anni ha mantenuto la sua promessa e ha conservato nel cuore tutti i dolci ricordi del suo unico amore. Tutti i giorni Takahama si recava nel cimitero, sia che l’aria fosse profumata dalla brezza dell’estate, sia che fosse appesantita dalla neve che cadeva d’inverno. Tutti i giorni pregava che lei fosse felice, bagnava la tomba con le sue lacrime e portava dei fiori. Quando Takahama stava morendo e non poteva più svolgere il suo compito amoroso, Akiko è venuta per lui. Quella farfalla bianca era la sua anima dolce e innamorata"

dallo stesso traduttore un'altra leggenda giapponese
 

skitty

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Il gatto nero



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Il gatto nero è sempre stato considerato portatore di sfortuna, perché si pensava che incarnasse il male. Ancora oggi, a quanto pare, esiste ancora questa diceria, tant’è ogni anno vengono sterminati circa sessanta mila esemplari. Così l’AIDAA: Associazione Italiana difesa Animali e Ambiente, ha istituito la giornata per “la tutela e la dignità del gatto nero”. In pratica si tratta di un convegno in cui partecipano tutte le associazioni animaliste e si discute sul lavoro svolto durante l’anno per tutela e salvaguardare i nostri amici felini.

La giornata dedicata al gatto nero è il 17 novembre per due motivi: diciassette perché è il numero che rappresenta, per i superstiziosi, sfortuna e novembre perché è il mese in cui si raggiunge il culmine di uccisioni di mici neri.

La diceria che il gatto nero porta sfortuna ha radici molto antiche: infatti, i gatti neri erano imbarcati sulle navi dei pirati, perché erano considerati più abili nel dare la caccia ai topi; vederne uno per strada significava, dunque, che una nave pirata era nei paraggi; inoltre nel Medioevo, erano considerati compagni diabolici delle streghe sia per il colore nero, che per la loro consuetudine di uscire di notte: per cui chi ne possedeva uno era condannato al rogo, inoltre il gatto nero era poco visibile al buio per via del colore e così faceva imbizzarrire i cavalli, che scaraventavano violentemente i cavalieri a terra.

Invece nell’antico Egitto il gatto nero era considerato portatore di fortuna.

Le famiglie che possedevano un gatto nero si ammalavano meno rispetto a chi non ne possedeva uno, inoltre erano abili a catturare topi, ratti, scorpioni e serpenti.

Il gatto nero aveva valenze religiose, infatti, era associato al culto di Iside, la dea che aveva il proprio regno nella notte.



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malafi

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Enrosadira - Perchè le Dolomiti si colorano di rosa

E' quello che i ladini chiamano Enrosadira, letteralmente il 'diventare di color rosa', un fenomeno straordinario per cui le pareti rocciose delle Dolomiti, data la loro peculiare composizione di carbonato di calcio e magnesio, assumono al calar del sole, in giornate caratterizzate da un'atmosfera particolare, una colorazione rosa che passa gradatamente al viola. Fin qui le spiegazioni scientifiche.

Ma è forse più suggestivo credere alle leggende dei 'Monti Pallidi', che narrano del magico regno del popolo dei nani governati da Re Laurino che, sul Catinaccio, aveva il suo splendido giardino, tutto coperto di rose. Il buon Laurino aveva una bellissima figlia, Ladina, che viveva felice nel suo magnifico regno insieme all'amorevole padre. Un giorno il Principe del Latemar, incuriosito dalla presenza di quelle stupende rose in un luogo tanto aspro e selvaggio si inoltrò nel regno di Laurino, vide Ladina, se ne innamorò perdutamente e decise di rapirla e portarla con sé sul Latemar per farne la sua sposa. Laurino, disperato per la fuga della figlia, maledisse i fiori che lo avevano tradito rivelando la posizione del suo regno e ordinò che le rose non fiorissero più, né di giorno né di notte. Ma aveva dimenticato il tramonto. Ecco perché, ancora oggi, a quell'ora del giorno, sulle splendide montagne della Val di Fassa fiorisce l'Enrosadira.
 

malafi

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Perchè le Dolomiti sono così chiare (Monti Pallidi)

Secondo la leggenda de “La Crepes Spavìdes” ovvero la leggenda dei Monti Pallidi, tra le nostre montagne viveva un principe buono, amato dal suo popolo. Egli però era molto triste; solo una cosa avrebbe potuto rallegrarlo: raggiungere la luna per conoscerne la principessa che gli era apparsa in sogno. Con l’aiuto di due saggi il suo desiderio si realizzò e, giunto sulla luna dove tutto era luminoso e splendente, incontrò la principessa e fu da lui subito riamato. Il suo soggiorno però fu breve, infatti i suoi occhi, feriti da quel chiarore così intenso, cominciarono a soffrire. Il principe dovette ritornare sulla terra con la sua sposa, e qui fu festeggiato dai suoi sudditi. Solo un mazzolino di fiori bianchi portò con se la principessa e ben presto questi ricoprirono gli alpeggi del regno: le Stelle Alpine. La loro felicità però fu breve, la principessa si ammalò di malinconia: i colori erano così forti sulla terra e le montagne così cupe… per non morire dovette ritornare dal re suo padre.
I nani silvani, numerosi in questi luoghi, vennero in aiuto al principe sempre più disperato per questa forzata separazione. Una notte di luna piena salirono sulle cime più alte di queste montagne e, sotto la direzione del loro re, incominciarono a fare strani movimenti con le mani e le braccia e ben presto tra loro apparvero grossi gomitoli splendenti: avevano filato i raggi di luna! Poco prima dell’alba, i nani silvani srotolarono i gomitoli lungo le ripide pareti delle montagne che furono ben presto ricoperte da un chiarore meraviglioso che avvolse tutto il regno. La principessa della luna poté ritornare tra i Monti Pallidi dove visse felice con il principe.
 

Zefiro

da sudovest
La chioma di Berenice

Egitto. Nel III sec a.C. Berenice, amazzone guerriera, sposò Tolomeo III che qualche giorno dopo le nozze partì per la guerra. Berenice voleva il suo uomo indietro sano e salvo, e fece voto agli dei impegnando quanto di più caro e prezioso per una amazzone: la sua chioma. Tolomeo tornò, Berenice tagliò i capelli e li depose nel tempio. Il giorno dopo le sue trecce erano scomparse.





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Cosa fosse realmente accaduto non è dato sapere, ma l’astronomo di corte, Conone, indicando al re il gruppo di stelle improvvisamente apparso vicino alla coda del leone, spiegò che i capelli della sua amata erano in cielo insieme a tutte le altre costellazioni. Perché il dono di ciò che ci è più prezioso è gradito agli dei. Ed infinitamente caro per noi.
 
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asiul

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Il cavaliere della Gran Zebrù

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Svetta oltre i 3800 metri nel parco nazionale dello Stelvio.Non una montagna qualunque,ma lo spirito di un luogo che comunica mistero.
Un luogo fatto da Leggende di amori,castelli nascosti e spiriti.
Da qualsiasi parte la si guardi lei spunta e appare come un’immensa e misteriosa piramide ghiacciata.
Il Gran Zebrù è, secondo la leggenda,una torre piena di spiriti buoni su cui signoreggia quello di un cavaliere
Johannes Zebrusius.Feudatario della Gera d’Adda, la zona della pianura lombarda compresa tra il fiume Adda, il fiume Serio e il Fosso bergamasco. Vissuto nel XI secolo, amava la sua Armelinda che lo contraccambiava contro il volere del padre, castellano del Lario.
Pensando di conquistare la benevolenza del padre della ragazza, castellano di Lario, Zebrusius partecipò ad una crociata in Terrasanta che durò quattro anni. Ma quando tornò, scoprì che la sua amata aveva sposato un nobile milanese.
Il nobile cavaliere, l’amava a tal punto da decidere d’uscire di scena con dignità. E affranto dall’amore perduto Zebrusius andò a vivere come un eremita alle pendici del gran Zebrù.Visse lassù trenta anni e un giorno, passato a costruirsi un ingegnoso congegno, per impedire agli animali alla sua morte avessero , dal suo corpo, un pasto. Così quando giunse il giorno in cui il mondo decise di abbandonarlo il meccanismo si mise in moto. Il peso del suo corpo fece muovere un monolite bianco che gli calò addoss come una pietra tombale.
Il destino volle che il nome della montagna che scelse il cavaliere significhi “roccaforte degli spiriti buoni”.

Ancora oggi, salendo sul Gan Zebrù è possibile notare sotto il passo delle Pale Rosse una pietra bianca, dove,secondo questa leggenda Zebrusius avrebbe deciso di morire.


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In testata di valle Zebrù là ove il ghiacciaio della Miniera si profila nitido sulla Bajta del Pastore sorge una bianca, enorme pietra che racchiude le spoglie del cavaliere Johannes Zebrusius che ivi visse per 30 anni ed i giorno in aspra solitudine.
Come il cavaliere della Gherdaina nella leggenda ladina della Siriola del Sassalóng (l'usignuolo del Sasso Lungo) era innamorato di una donna crudele "che gli aveva preso il cuore„, così il cavaliere Zebrusius guardava i boschi ed i picchi delle montagne silenziose all'intorno, attendendo la morte con infinita tristezza... Narra la leggenda della Bajta del Pastore: Johannes Zebrusius era nel 1150 feudatario della Gera d'Adda, terra ubertosa, ricca di sole e di pingui mandrie e nobile era il castello, risonante di danze e di canti d'amore: ricco e desiderato dalle dame per molte miglia all'ingiro il castellano. Ma Zebrusius ardeva d'amore per una fanciulla lontana, Armelinda, figlia di un signore del Lazio che si oppose alle richieste ardenti dell'innamorato ed allontanò la giovane perché non fosse da quegli rapita. Armelinda, però, promise eterno amore e fedeltà di attesa al cavaliere. Disperato per le reiterate ripulse paterne Zebrusius parte per le Crociate in Terra Santa. Dopo quattro anni torna il cavaliere alla sua Gera d'Adda, ma colà sa che Armelinda, infedele, è passata a nuove nozze. Allora Zebrusius si ritira nella romita valle che da lui prende il nome... Chi guarda ancora oggi da Bajta del Pastore al limite inferiore del ghiacciaio della Minierà scorge la enorme pietra sepolcrale che lo stesso infelice cavaliere si costruì ed ove si indovinano, tuttora, per quanto corrose dai secoli, le tracce dell' iscrizione ivi apposta.

[Tullio Urangia Tazzoli, nell’opera "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari” (Anonima Bolis Bergamo, 1935)]
 

asiul

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Il vischio

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"I Druidi attribuivano al vischio un grande potere. Essendo una pianta aerea, che non ha radici ma vive attaccata al tronco di altri alberi, era considerata manifestazione degli dei che vivono in cielo; il toccare l'umana terra avrebbe voluto dire perdere i propri preziosi poteri. In effetti se usato bene aveva effetti curativi e miracolosi, se usato male poteva essere velenoso.
Viene definita la pianta della Luna, grazie alle sue bacche bianche e lattiginose, che quasi brillano al buio. I Celti usavano coglierlo soltanto in caso di reale necessità e con un falcetto d'oro, vestiti di bianco, scalzi e digiuni.


Il vischio era anche la pianta associata alla dea anglosassone Freya (o Frigga), sposa del dio Odino e protettrice dell'amore e degli innamorati. La leggenda narra che Freya aveva due figli, Balder e Loki. Il secondo, cattivo e invidioso, voleva uccidere il primo, buono e amato da tutti.
Venuta a conoscenza di ciò Freya cercò di proteggere Balder e chiese a Fuoco, Acqua, Terra, Aria e a tutti gli animali e le piante di giurare la loro protezione per l'incolumità del figlio, e così fecero.
Loki però scoprì che la madre non si era rivolta ad una pianta, che non viveva né sopra né sotto terra: il vischio. Intrecciando i rami di questa pianta fece così un dardo appuntito, lo diede al dio cieco dell'inverno, che lo tirò dal suo arco e colpì, uccidendolo, Balder.
Tutti gli elementi della Terra e del Cielo si rattristarono per la morte dell'amato Balder e per tre giorni e tre notti cercano con tutte le loro forze di riportarlo in vita, ma non riuscirono. Freya, rassegnata e disperata, pianse tutto il suo dolore sul corpo del figlio. Magicamente, le lacrime sincere della madre, a contatto con il dardo di vischio, diventarono le bacche perlate della pianta e Balder riprese vita. Così Freya, colma di felicità, ringraziò chiunque passasse sotto l'albero su cui cresceva il vischio con un bacio.
Da lì in poi la dea vuole che chi sta sotto il vischio si baci, per avere la sua protezione eterna, simbolo della vita e dell'amore che sconfigge anche la morte.

Nel Cristianesimo questa simbologia è stata mantenuta e il vischio significa fortuna, protezione e amore. Si usa regalarlo durante il periodo natalizio, oppure usarlo come decorazione per i pacchi o da appendere sulla porta di casa, come buon auspicio per chiunque entri. Se due innamorati si baciano sotto un ramoscello terranno lontani da loro problemi e difficoltà.
Se nel periodo natalizio una ragazza che si trova sotto il vischio non viene baciata dal suo amato non si sposerà per l'intero anno a venire."

amando.it
 

asiul

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S. Vittore delle Chiuse: la Grotta dell'Infinito (Marche)

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"Vivevano presso la Badia di San Vittore due bellissimi giovani, perdutamente innamorati. Nonostante li unisse la comunione di un grande amore, le rispettive famiglie, avversate da profonda ostilità, impedirono con ogni mezzo il loro matrimonio. Disperati per questa situazione senza possibile soluzione, abbandonarono le abitazioni e, imprecando contro la propria parentela, fuggirono sul Monte della Valle per rimanere nella selva buia. Cauti e prudenti come due capretti inseguiti, vagarono nel bosco il giorno e la notte successiva, vinti e compiaciuti dalla passione d'amore. Infine, presso un macigno, scoprirono una grotta e sembrava che tutta la valle palpitasse di allegria per la loro felicità. Sarebbero rimasti in questo luogo segreto per lungo tempo, con i loro bambini, fra le ginestre e il gregge, fino a che S. Vittore non avesse riconciliato i genitori. Una sera d'inverno, nell'ora del tramonto, la giovane, recatasi per una non precisata necessità all'interno della Grotta, svenne e riavutasi cercò di liberarsi ma, per uno strano sortilegio, acquistò le sembianze di una capra. In tutte le sporgenze nacquero caprifichi che ella dilaniò con gli zoccoli e con il muso. A voce bassa disse al giovane che una forza diabolica l'aveva ridotta in quello stato e da quel momento non parlò più scomparendo per sempre nel sotterraneo, convertita in fantasma. Il giovane, esterrefatto, ricercò la propria amata per tre giorni e per tre notti fino a che l'invase la più triste amarezza e non potendosi dare pace per l'accaduto si adirò, corse come un toro infuriato, bruciò la selva fino a che si fermò presso l'antro battendo le tempie sulla pietra. Anch'egli fu colpito da sortilegio, cambiò colore e divenne un masso disposto a guardia della grotta. Nell'aria maligna, pesante come una maledizione, sibilò il vento, sogghignarono le forze del male. In quel medesimo luogo, ogni sera, quando il sole discende dietro i monti e la valle si addormenta, una capra esce dalla fenditura e un grido lacera l'aria facendo tremare i pioppi del fiume e le querce della montagna. La Grotta viene per questo chiamata anche la "Grotta della Capra". "

[leggendeitaliane]​
 
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asiul

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Leggende di Leonardo da Vinci

I dragoni e le anatre

Tutte le anatre si levarono in volo dalla palude: qualcuno le aveva avvertite in tempo, prima che i dragoni le attaccassero.
Dall'alto, esse videro infatti, sulla riva, un gran numero di serpenti: avevano tutti una cresta e grosse zampe munite di artigli.
I dragoni decisero di attraversare la palude per andare in cerca di cibo sull'altra sponda; ma non sapevano nuotare.
Allora si intrecciarono gli uni con gli altri, si disposero come la trama di un tessuto, facendo una sola superficie che sembrava un enorme graticcio, e tenendo tutti la testa fuori dall'acqua attraversarono insieme la palude come se fossero stati una zattera.
- Lo vedete? - gridò l'anatra più anziana alle compagne. - Vedete che cosa si può fare a stare uniti? -​
(da Leggende: Il dragone. H. 20 v. 21 r.)

La sirena

Il vento era caduto, le vele si erano afflosciate sull'albero; nella notte appena rischiarata dalla nuova luna la nave dondolava leggermente sullo specchio nero dell'acqua, quando la sirena cantò.
Parve ai marinai di sentire un fruscio come di una brezza leggera; poi come una musica che salisse dal mare profondo; poi come una voce dolcissima, mai udita prima; e finalmente il canto li avvinse ad uno ad uno in un sonno senza risveglio.
La sirena, infatti, quando i marinai furono addormentati, montò sulla nave, li toccò uno dopo l'altro con la sua mano micidiale, e tutti, senza accorgersene, passarono, sognando, dal sonno alla morte.​
(da Leggende: Lusinghe over soie. H. 8 r.)
La Fenice

Volando tra il deserto e il mare, la fenice scorse in lontananza il fuoco di un bivacco. Allora capì che il tempo della grande prova era giunto. Doveva aver fiducia ed abbandonarsi tranquilla al suo destino.
Si librò solenne nell'aria, ad ali ferme e tese, poi con larghe ruote, incominciò a discendere. Era più grande di tutte le aquile, e più bella, per il vivido piumaggio di mille colori.
Quando fu sopra al fuoco del bivacco sentì la fiamma lambirle le piume e fedele a se stessa si lasciò cadere sul rogo. Ma quando il fuoco si spense, dal mucchio delle ceneri si sprigionò una fiammella azzurra; ondeggiò nell'aria, si levò in alto aprendosi come se avesse le ali. Era la fenice che rinasceva dalle sue ceneri per vivere nel cielo altri cinquecento anni.​
(da Leggende: Costanzia - Fenice H. 10 v.)
 

asiul

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Leggende di Leonardo da Vinci

Libertà

"L'aquilotto sporse il capo fuori del nido e vide molti uccelli che volavano tra le rocce sottostanti.
- Mamma - domandò - chi sono quegli uccelli? -
- Sono nostri amici - rispose la mamma. - L'aquila vive solitaria, ma ha bisogno di una corte: se no, che regina sarebbe? Questi uccelli sono i nostri fedeli cortigiani. -
L'aquilotto, soddisfatto, continuò a guardare, poi esclamò: - Mamma, hanno rubato il mio pasto! -
- No, non l'hanno rubato, gliel'ho dato io. Ricordati, anzi, quello che ora ti dico: un'aquila non avrà mai tanta fame da non lasciare una parte della sua preda agli uccelli che le stanno intorno. Infatti, a quest'altezza, essi non troverebbero di che nutrirsi e dovrebbero abbandonarci per scendere in cerca di cibo. Chi vuol tenere una corte deve essere generoso e liberale, e in cambio dell'ossequio deve sfamarla tutti i giorni. - "​

(da Leggende: Liberalità. H. 7 r)
 
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asiul

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Crudeltà - L. da Vinci

Un' altra leggenda di Leonardo da Vinci...

Crudeltà

"C'era una volta un animale, mezzo uccello e mezzo serpente, chiamato basilisco. Sulla testa aveva una cresta paurosa che gli arrivava fino in mezzo al dorso, la sua coda era lunga e le sue ali somigliavano a quelle del pipistrello.
Tutti gli animali, grandi e piccoli, erano terrorizzati dalla sua presenza perché quel mostro aveva il veleno nello sguardo. Bastava che puntasse gli occhi su un uccellino o sopra un elefante, e quelli, subito, morivano. Nessun animale scampava a quello sguardo assassino: nella foresta le vittime aumentavano di giorno in giorno.
Gli animali, allora decisero di fuggire: approfittando della notte per abbandonare tutti insieme le tane e i nidi, e si trasferirono in una selva lontana.
Il giorno dopo il basilisco ricominciò la sua caccia spietata, ma non trovò più nemmeno un animale. Allora, furibondo, fissò gli occhi sugli alberi, e gli alberi si seccarono. Li fissò sull'erba, e l'erba inaridì.
Quella bella foresta diventò un deserto. "​
(da Leggende: Crudeltà. H. 7 r.)
 

asiul

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L'origine della Sicilia

Ed una su...

L'origine della Sicilia

"Il popolo siciliano, nella sua ricca fantasia dovuta alla sua vivacità spirituale, determinata dal clima mediterraneo e dal suo effervescente carattere, ha trasfigurato in leggende anche l'origine stessa della sua terra; e l'ignoto poeta popolare ha definito la Sicilia come un dono fatto da Dio al mondo in un momento di suprema letizia, pertanto l'isola mediterranea non sarebbe altro che la metamorfosi di un diamante posto da Dio nel mezzo del mare per la felicità del mondo (e non certo una parte dell'Atlantide o un'appendice triangolare che un violento terremoto avrebbe staccato dalla penisola italiana, come ci narra anche Virgilio); sicché il poeta popolare conclude che: la cht'amaru " Sicilia " li genti, ma di l'Eternu Patri è lu diamanti! Anche il novellatore popolare crea le sue leggende sull'origine della Sicilia, e fa anch'egli opera di poesia.

I tre promontori, che danno alla Sicilia il suo tipico aspetto triangolare, sarebbero pertanto il frutto dell'estro gentile di tre ninfe, che vagavano per il mare prendendo dalle parti più fertili del mondo un pugno di terra mescolata con sassolini; e, postesi tutte e tre sotto il cielo più limpido ed azzurro del mondo, da tre punti gettarono il loro pugnello di terra nel mare, e vi lasciarono cadere i fiori e le frutta che esse recavano nei flessuosi veli che le ricoprivano, dolcemente danzando sui piedi leggeri. Il mare, al loro apparire, si vestì di tutte le luci dell'arcobaleno, e rise nelle sue grazie leggiadre ed infinite; e a poco a poco si solidificò, e dalle onde emerse una terra variopinta e profumata, ricca di tutte le seduzioni della natura; e i tre vertici del triangolo, dove le tre bellissime ninfe avevano iniziato la loro danza, divennero i tre promontori estremi della nuova isola, che poi i geografi avrebbero chiamatoTrinacria, cioè la terra dalle tre punte (e il più antico simbolo della Sicilia è una testa di donna con tre gambe, la Triskele dei greci, come si vede nelle pitture vascolari conservate nel museo archeologico di Agrigento), che si chiamarono capo Faro o Peloro dal lato di Messina, capo Passero o Pachino dal lato di Siracusa, e capo Boeo o Lilibeo dal lato di Palermo. Ma anche il nome stesso dell'isola è nato da una leggenda, che parla di una principessa bellissima, che si chiamava appunto Sicilia,,.e alla quale il destino ordinò di lasciare, sola e giovinetta, la propria terra natia, altrimenti sarebbe finita nelle fauci dell'ingordo Greco-levante, che le sarebbe apparso sotto le mostruose forme di un gatto manlinone, divorandola.

Per scongiurare questo pericolo, non appena compì quindici anni (che così voleva il destino) il padre e la madre, piangenti, la posero in una barchetta, e la affidarono alle onde. E le onde, dopo tre mesi, quando ormai la povera Sicilia credeva di dover morire di fame e di sete, dato che tutte le sue provviste si erano esaurite, deposero la giovinetta su una spiaggia meravigliosa, piena di fiori e di frutti, ma assolutamente deserta e solitaria. Quando la giovinetta ebbe pianto tutte le sue lagrime, ecco improvvisamente spuntare accanto a lei un bellissimo giovane, che la confortò, e le offerse amore e ricetto, spiegando che tutti gli abitanti erano morti a causa di una peste, e che il destino voleva che fossero proprio loro a ripopolare quella terra con una razza forte e gentile, per cui l'isola si sarebbe chiamata col nome della donna che l'avrebbe ripopolata; ed infatti si chiamò Sicilia, e la nuova gente crebbe forte e gentile, e si sparse per le coste e per i monti. Qual è il fondamento storico di questa fascinosa leggenda?

Lasciando da parte le questioni etimologiche (con le quali si è arrivati a congetturare che il termine Sicilia deriverebbe dall'unione delle due voci antiche sik ed elia, indicanti rispettivamente il fico e l'ulivo, e starebbe a significare la fertilità della terra siciliana)' c'è da osservare che i due grandi folcloristi che hanno riportato questa leggenda, il Salomone Marino e il Pitrè,' hanno concordemente indicato il riferimento culturale, cogliendolo nell'antica favola di Egesta, abbandonata dal padre Ippota su una barchetta affidata alle onde, perché non diventasse preda dell'orribile mostro marino inviato dal dio del mare Nettuno; e che poi, approdata in Sicilia, e sposa di Crìmiso, generò l'eroe Aceste di cui parla Virgilio nel quinto libro dell'Eneide; ma ambedue hanno trascurato il fonda, mento storico, che è dato dall'accenno all'" ingordo Greco-levante ", che avrebbe divorato la povera Sicilia. Il temibile mostro greco-levantino altro non è che l'impero bizantino, la cui dominazione in Sicilia, protrattasi dal 535 all'827, lasciò un cattivo ricordo nell'isola per il suo avido fiscalismo, tanto che fino a qualche tempo fa si diceva ai bambini cattivi, per farli impaurire: " Vidi ca vénunu i greci! " (bada che stanno per venire i bizantini).' Il che spiega sufficientemente la genesi storica della leggenda. "

[da: leggendeditalia]
 

asiul

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La Piatha del Diaol


I dis che l'è opera del Diaol, che l'è la so piazza e che l'è geloso che 'l sie. Parché non passe nessun par de là, 'l ha fat rodolar na montagna creando an labirinto par chi vol passar via. I dis che tanti se ha pers e non i é pi tornadi a casa, e alora i sentia rider e sghignazzar. I dis che lassù 'l è el ritrovo delle strighe, che le ariva da tute le parti par far na gran festa, montade su scoe e can e altre bestie. Le bala, le ride, le canta par tuta la not. Le fa consilio e gran orge. I ha vist foghi e fiame e sentì urli e gran bacan. A la matina bonora le se dilegua par la so strada.

Dicono che è opera del Diavolo, che è la sua piazza e ne è geloso. Perché nessuno vi passi, ha fatto franare una montagna, creando un labirinto per chi vuole attraversarla. Dicono che tanti si sono persi e non sono più tornati a casa, e allora si sentiva ridere e sghignazzare. Dicono che lassù è il ritrovo delle streghe, che arrivano da tutte le parti per fare una gran festa, montate chi su scope, chi su cani o su altre bestie. Ballano, ridono, cantano per tutta la notte. Fanno consiglio e grandi orge. Hanno visto fuochi e fiamme, sentito urli e un gran baccano. Al mattino di buon ora si dileguano per la loro strada.​

[Murle di Pedavena (Bl), ott. 1992; Germano, a. 50, contd.; E. Ricci]
 

asiul

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Il lago di Carezza (in Trentino)

"Nel lago di Carezza si vedono riflessi tutti i colori dell'iride, mentre gli altri laghi montani sono tinti solamente di azzurro o verde. Questa meraviglia è però frutto di un sortilegio; infatti lo stregone del Latemar si era innamorato della bellissima Ondina, la ninfa che ne abitava le acque, e tentò più volte di rapirla.

Così un giorno, consigliato dalla Stria del Masarè, fece apparire nel lago di Carezza un bellissimo arcobaleno con lo scopo di attrarre l'amata. Ma quando l'Ondina uscì dalle acque spinta dalla curiosità , vide lo stregone e fuggì spaventata. Il mago fu preso da un tale furore per l'ennesimo fallimento che prese l'arcobaleno e lo gettò in mille pezzi nel lago. E da quel giorno, appunto, le sue acque rispecchiano tutti i colori dell'iride."


[leggendeitaliane]
 
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