Scusatemi la lunghezza di quanto segue, a mia discolpa posso dire che ho fatto un riassunto di un precedente commento di tre pagine
Nella scrittura di questo racconto ho lottato strenuamente con la punteggiatura, che ancora non mi soddisfa (ha ragione malafi nel suo commento); inoltre lo trovo lacunoso, perché non sono stata davvero in grado di far fare al lettore tutte le riflessioni che volevo, manca qualcosa (condivido le critiche di Carcarlo e Germano). Ci sono alcune parole ripetute che devo modificare, e quel famigerato “mettersi al letto” che mi è proprio sfuggito. Penso che il racconto necessiti di essere rimaneggiato ancora un bel po’.
Però, insomma, qualcosa di buono è passato lo stesso, e non so esprimere quanto questo mi renda felice.
Il genere horror non mi ha mai attirato molto. Ho visto diversi film, ma letto pochissimo, giusto qualche racconto di Poe quando ero adolescente e, di recente, alcuni capitoli dell’autobiografia di Stephen King “On writing”. Negli anni, ho provato varie volte a iniziare qualche libro horror, ma l’ho abbandonato presto perché non mi faceva provare alcuna emozione particolare, le situazioni descritte mi sembravano solo irreali e grottesche e non mi spaventavano minimamente.
Con questa storia, volevo tentare di esplorare le varie disposizioni d’animo che si possono avere riguardo la paura: essere spaventati da cose concrete o immaginarie, essere in qualche modo attratti da ciò che ci fa paura oppure no, provare o meno divertimento nello spaventare gli altri.
Nelle mie intenzioni, Beth è la paura stessa, la voce narrante è la persona che fa queste riflessioni. Attraverso di lei, avrebbe dovuto farle anche il lettore: uno dei punti deboli del racconto è questo, non ci sono riuscita.
Forse vi sorprenderà, e spero che non sia una delusione, ma la storia è quasi interamente autobiografica, gran parte di quello che succede è successo davvero quando avevo 12 anni. “Beth” è ispirata a una mia compagna di classe che faceva davvero quel gesto di sfregarsi il naso in modo strano.
Avrei voluto scrivere nel dettaglio cos’è vero e cosa è inventato, ma sarebbe stato troppo lungo, dico solo che la passeggiata mia e di “Beth” c’è stata davvero ed è andata quasi esattamente come ho descritto: cassetta, fontanella, vecchia, casa degli spiriti, pietre.
La parte autobiografica si conclude nel momento in cui ho messo la pietra nel cassetto, poi mi sono semplicemente addormentata, ma il racconto non poteva certo finire così, quello che accade dopo è inventato.
La frase con il famoso “clic” mi è venuta in mente all’ultimo momento, e non ne ero pienamente soddisfatta. Infatti, dopo aver consegnato il racconto, ne ho scritte altre due alternative.
Mi piaceva da matti quel suono, quel “clic”, che ho scelto deliberatamente perché volevo proprio un suono lieve e tintinnante, anche a costo che il lettore non capisse bene cosa potesse essere, e ora so che è stata la scelta giusta, perfetta direi. Ho un’idea ben precisa di cos’è che produce quel suono, ma non lo svelerò, perché il bello di tutta la faccenda è proprio questo: per ognuno è una cosa diversa, proprio come la paura stessa.
PS. Potrebbe sembrare che io abbia scelto il titolo dopo aver avuto l’idea della storia, invece è l’esatto contrario: è stato il titolo a scegliere la storia. Come ho trovato questo titolo… è un’altra storia che potrei raccontare, la prossima volta.