Non ero neanche arrivata a metà libro (fra l’altro molto breve) che mi sono chiesta per quale assurdo motivo avessi aspettato così tanto a leggerlo. Forse perché, avendo visto il film diversi anni fa (bello ma non eccezionale, secondo me) credevo di essere immune a qualsiasi sorpresa positiva potesse farmi il romanzo in termini di trama e contenuti. Be'... quanto mi sbagliavo!
A parte che, per quanto il film sia fedele al libro, ci sono comunque sostanziali differenze a discapito del derivato (come sempre), ma soprattutto la vera bellezza e unicità di quest’opera risiede non tanto nella pur geniale ‘trovata’ iniziale (il rovesciamento distopico per cui i tradizionali “vigili del fuoco” si trasformano in incendiari di libri), quanto nel suo messaggio politico-filosofico, il quale passa attraverso due punti fondamentali: i discorsi, entrambi rivolti a Montag, del suo capo Beatty e del professor Faber. Il primo mi ha davvero folgorata: una delle più lucide e taglienti denunce all’appiattimento culturale prodotto da un’eccessiva tecnologizzazione e (oserei dire) “globalizzazione ante litteram” che mi sia capitato di trovare in un libro.
Beatty (tutt’altro che uno stupido, o un ignorante) rivela la vera ragione per cui i libri pian piano sono stati messi al bando: perché la cultura della diversità di cui essi sono portatori minaccia la politica dell’uguaglianza “al ribasso” cui aspira una totale (e distorta) democratizzazione.
“Più numerose la popolazione, maggiori le minoranze. Non pestate ai piedi ai cinofili, ai maniaci dei gatti, ai medici, agli avvocati, ai pezzi grossi, ai mormoni, battisti, unitari (...). Più vasto il mercato, Montag, meno le controversie che ti conviene ricomporre , ricordalo! Non è stato il Governo a decidere: non ci sono stati in origine editti, manifesti, censure, no! Ma la tecnologia, lo sfruttamento delle masse e la pressione delle minoranze hanno raggiunto lo scopo, grazie a Dio!”
E ancora (sono passaggi che mi hanno messo i brividi...): “Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno vien fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro; dopo di che tutti sono felici, perché non ci sono montagne che ci scoraggino con la loro altezza da superare, non montagne sullo sfondo delle quali si debba misurare la nostra statura! Ecco perché il libro è un fucile carico nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme!”
Ora, considerando che questo romanzo è stato scritto esattamente a metà del secolo scorso, trovo queste parole di una modernità strepitosa, addirittura inquietante... Se nel capolavoro di Orwell, che non ho potuto non tener presente mentre leggevo questo libro, il sistema politico denunciato era il totalitarismo, qui sotto accusa è la democrazia stessa portata alle sue estreme e terribili conseguenze, qualcosa di non molto diverso da quello che vediamo noi stessi ogni giorno nella società in cui viviamo.
Ne consegue che, per quanto da un punto di vista strettamente letterario ritengo 1984 superiore a Fahrenheit 451, mi sono identificata molto di più, e quindi mi sono sentita maggiormente coinvolta, nel contesto di questo secondo romanzo, piuttosto che nel capolavoro orwelliano.
Tornando a Beatty, paradossalmente proprio scagliandosi contro i libri, egli ne fa uno dei ritratti più belli e intensi: i libri sono “ami attraverso cui pescare la malinconia e la tristezza”, poiché “domandandosi il perché (e non il come) di tante cose, si rischia di condannarsi all’infelicità permanente”. Ma se la felicità ambita dal Governo e da Beatty è quella che ci si presenta sotto gli occhi per più di metà libro, quella che si nutre di “piaceri e svariati titillamenti” che ci atrofizzano cervello e ci impediscono di pensare, allora ben venga l’ infelicità generata dai libri, quella che alimenta le diversità, i confronti, “i due aspetti del problema”.
Compendio al discorso di Beatty, è quello di Faber (in un certo senso essi rappresentano, in negativo e in positivo, le due facce della stessa medaglia), che mi ha colpito in special modo per un passaggio: “No, non sono affatto i libri le cose che andate cercando. (...) cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso. I libri erano soltanto una specie di veicolo, di ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare.” Adesso ditemi se avete trovato in qualche altro romanzo una defizione più bella dei libri (a parte quella già riportata di Beatty: fra le due non saprei scegliere...). Una definizione più bella e anche più amara, poiché non ho potuto non pensare a quanti “surrogati alla vita” abbiamo oggi, la maggior parte dei quali, purtroppo, non hanno la stessa forza realmente sostitutiva dei libri. “Le cose che voi cercate, Montag, sono su questa terra, ma il solo modo per cui l’uomo medio potrà vederne il novantanove per cento sarà un libro”. Purtroppo, oggi, i surrogati di cui disponiamo difficilmente ci trasmettono “vita vera” per più di uno scarso uno-due per cento...
“...un ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare...” Qui Bradbury anticipa (al rovescio) una parola che da sola vale tutto il libro (non per niente viene ripetuta, in corsivo, alla fine del libro), ed è ricordare. Leggiamo per poter ricordare, un giorno. Il finale, forse effettivamente un po' debole, da fiaba, credo si possa riassumere così.
Un libro che chiunque si professi amante della lettura non può non aver letto. Un libro che è uno dei più bei inni ai libri stessi che credo siano mai stati scritti.