Ogni tanto scopro sezioni e treads che esistono da tanto, ma che per ragioni oscure non mi è mai capitato di visitare. Questo, in particolare, mi piace molto, quindi inauguro la mia presenza con l'incipit del libro che sto leggendo.
Ho un ricordo piuttosto vago di come sono andate le cose, sono passati anni. Mi trovavo a Roma e stavo cercando di concludere una ricerca su un gesuita che, sul finire del Cinquecento, aveva scritto un trattato sul matrimonio, soffermandosi con grande dovizia di particolari su quello che gli sposi possono o non possono fare nell'intimità. Animato da scrupolo di verità e zelo di cura d'anime, pare si fosse spinto troppo in là nel considerare tutte le possibilità che hanno i corpi di amarsi, e cercavo delle carte che confermassero che la sua opera era stata censurata. Doveva essere all'inizio dell'inverno, probabilmente fuori pioveva una di quelle piogge torrenziali che si riversano su Roma a frustate, squassando i pini marittimi aperti come ombrelli al rovescio. La sala di consultazione dell'archivio dei gesuiti dà su una terrazza, che diventa di una lucentezza specchiante quando è bagnata. Il grigio del cielo così si raddoppia. Da sopra e da sotto, non lascia scampo. E se poi, affacciandosi alla finestra per riposare gli occhi dalla lettura si cerca l'orizzonte, come devo aver fatto a un certo punto, si incontra altro grigio, quello del marmo lavato della cupola di San Pietro, che incombe vicinissima. Passa davanti alla finestra come una nave che sfiora appena la costa, impassibile nella sua monumentalità, mentre infuria la tempesta e la capitale viene sommersa dagli ingorghi del traffico e dai rigurgiti dei tombini. La si vede da dentro la sala, impenetrabile ai rumori esterni. Qui il silenzio è interrotto solo dal fruscio delle carte sfogliate e dal ticchettio delle dita sulle tastiere. È il suono dei cercatori che stanno trovando e fanno provviste di materia, che rumineranno nei mesi e negli anni a venire in lunghi silenzi, ognuno da solo. Fare fotografie non è sempre ammesso, e i documenti vanno riversati, parola per parola, segno per segno, anche quelli indecifrabili, dentro i propri computer portatili. Possono volerci giorni, settimane, ogni minuto è prezioso per quel travaso.
Ma intanto ho già subìto uno scherzo della memoria. No, certo, non è la cupola di San Pietro che si vede dalla finestra in tutta la sua interezza, ma un piccolo campanile romanico. Se è così ingannevole il ricordo di cose accadute a me, mi dico, figuriamoci la mia capacità di portare alla luce cose accadute ad altri. A ogni modo, mentre probabilmente fuori pioveva e il grigio dominava cielo e terra, io cercavo carte di censura, senza trovarle. Avevo già guardato nei luoghi in cui potevo aspettarmi di incontrarle, seguendo invano gli ordini geometrici che organizzano l'archivio, ed ero pronta al salto. Quando non si trova dove si prevede di trovare, si lascia l'orizzonte del luogo certo e si affronta, con un sospiro di rassegnazione e di presa di coraggio, il grande, indistinto regno della miscellanea. Qui, dove si mescolano insieme i libri di conti con le poesie, i santini e gli appunti volanti, brandelli di corrispondenze private e avvisi lasciati in portineria, il tempo non si calcola. Né quello che si impiegherà a cercare, né quello da cui le scritture provengono. Le carte che ci finiscono dentro sono molto spesso senza data, il che, se si aggiunge al fatto che altrettanto spesso sono senza firma, le rende mancanti dei requisiti per trovare accoglienza nelle cittadelle fortificate della storia ricostruita con esattezza. Senza nome, cognome e data di nascita, restano vaganti come figlie di nessuno e di nessun tempo, finché qualcuno non riconoscerà in loro una grafia nota che ne riveli la paternità o l'anzianità, e le farà entrare.
È da questo limbo degli incollocabili che la storia di Veronica è arrivata qui, capitando fra le mie mani mentre cercavo altro, avvolta in una coperta di carta dai margini sbriciolati e con sopra un nome che non era il suo: Esorcisazione di Maria Antonina Hamerani, ritenuta ossessa (1834-35). Chi le ha dato un titolo aveva forse letto una piccola parte del plico contenuto nella cartella, o comunque l'aveva ritenuta, quella piccola parte, più rilevante del resto. Che fosse per trascuratezza, che fosse per distrazione, o per una volontà precisa perduta nel tempo che ci separa, il custode della memoria, intanto, mi ha consegnato la storia di Veronica come la storia di un'altra. Qualcun altro, più tardi, ha cancellato Maria Antonina, scrivendoci sopra Veronica. L'ultimo archivista ha trattato con deferenza l'archivista originario, non potendo contraddirlo (ciò che è stato scritto prima non si cancella del tutto, è dovere conservarlo). Né ha voluto che la propria parola fosse definitiva. Con mano cauta e leggera, ha usato la matita.
Queste sono solo due delle molte mani che hanno composto il fascicolo trovato in un giorno di pioggia torrenziale. Oltre trecento carte, la più parte scritte su entrambi i lati. Scorrendole, ricordo di aver notato subito una mano zelante che riempie i primi fogli con una grafia minuta, il margine tracciato con precisione a metà della pagina. Ha l'aria di voler riordinare a posteriori, ho pensato. La stessa mano si fa poi spigolosa e noncurante, sfondando senza remore la linea invisibile del confine tra la colonna di destra e quella di sinistra. Aveva forse fretta, le premeva annotare tutti i particolari possibili tentando di catturarli da una situazione convulsa. Il tempo non le ha dato modo di trascrivere in forma presentabile gli appunti presi nell'urgenza, né quelli presi nella stessa urgenza da altre mani, che arrivano a riempire, alternandosi, la restante metà del documento. Ho visto una mano rotonda, che nella velocità srotola i suoi boccoli giù per un rigo inclinato. Poi una che sembra avere ben poca pratica, insicura, aggrappata alle forme imparate negli esercizi di calligrafia. Una mano di donna incolta, forse. Qui c'è uno stampatello leggero e puntuto che preferisce stare vicino ai margini, e ancora un corsivo brusco che occupa invece gli spazi centrali, con una foga maldestra e quasi violenta. Nel lasciare traccia scritta, le mani sembrano essere state spinte avanti da una fretta forsennata. Devono aver scritto mentre gli occhi guardavano qualcosa accadere con una velocità inafferrabile, ma che per una qualche ragione chiedeva di essere registrato. Nessuno, ho subito realizzato, ha lasciato una firma, come se non importasse chi fosse a scrivere. Forse lì per lì si era pensato che non ci fosse bisogno di identificarsi. Tutti sapevano di chi era quello svolazzo o quel segno incerto, si conoscevano bene. Oppure, ancora, era sufficiente lasciare una testimonianza purché fosse, purché si sapesse che occhi avevano guardato, che ciò che era scritto era davvero accaduto. Qualcuno, un giorno, avrebbe preso tutti quei segni, le tracce di tutte quelle mani, e li avrebbe trascritti in bella copia, per rendere quella storia ancora più vera.
Alla chiusura dell'archivio doveva esserci quella luce grigioviola, quasi fluorescente, di certi crepuscoli bagnati d'inverno. Come talvolta capita, non avevano ancora acceso le luci del corridoio che conduce all'uscita e probabilmente avevo trovato il mio armadietto a tentoni, intuendolo grazie al bagliore che veniva dalla tromba delle scale. La mia giacca, lì dentro da ore, puzzava di chiuso e di umido. Tirandola fuori insieme alla borsa, avevo fatto sbattere lo sportello, provocando una catena di rimbombi metallici. Quando ne sbatte uno, sbattono tutti gli altri, a decine, vuoti. L'oscurità di quel corridoio non mi è mai piaciuta. Attraversarla dopo aver passato una giornata a leggere cose di morti ha l'aria di una punizione. Hai voluto guardare nelle nostre vite? Passa attraverso questo buio, adesso. Potresti incontrare qualcuno di noi. Hai fretta di uscire, codarda. Però quando eri sotto le luci al neon della sala di consultazione, seduta sulle sedie imbottite, ci hai letti con avidità, hai guardato nelle nostre vite con la supponenza di chi crede di vederci chiaro solo perché vive nell'adesso. Lì per lì ti abbiamo lasciato fare, non avendo sulla carta diritto di replica. Ma ora potremmo assalirti alle spalle, spingerti giù dalle scale, oppure anche solo sfiorarti la guancia con un soffio. L'incertezza della provenienza di uno spiffero sarebbe sufficiente a terrorizzarti.
Devo essere uscita in strada sollevata, come sempre, dall'idea di essere fuori, nel frastuono della città del tardo pomeriggio. Poi devo aver compiuto una sequenza di azioni di cui non ho certezza assoluta, ma che stimo probabili per l'innumerevole quantità di volte in cui le ho replicate. Ho riacceso il telefono, sperando che qualcuno dal mondo dei vivi mi avesse cercata. Attraversando via della Conciliazione, ho guardato con diffidenza alla mia destra. Prima che venisse chiusa al traffico, le auto arrivavano a una velocità spaventosa, saltando sui cubetti di porfido bagnato, noncuranti delle strisce su cui il pedone disciplinato si collocava, illuso di avere un qualche diritto di attraversamento. Al via libera, nel raggiungere il più velocemente possibile l'altro lato della strada, ho guardato a sinistra la quinta teatrale di piazza San Pietro. Stavolta la memoria non mi inganna, era davvero lì, una sagoma bluastra contro il cielo grigioviola della prima sera. Forse non pioveva più.
(Fernanda Alfieri - Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma)