Finito.
Ho trovato gli ultimi due capitoli abbastanza pesanti, la Arendt analizza il processo da un punto di vista filosofico e giuridico che mi risulta molto ostico.
Come ha già detto estarsable, il suo dire e non dire, dire ma anche lasciare aperta la possibilità a voler dire altro, il suo non prendere mai veramente posizione, alla fine è un po' irritante.
E anche presuntuoso, come voler dimostrare la sua capacità di un'assoluta obiettività, o almeno, ammettendo la sua buona fede, il suo sforzo.
Ma si può rimanere obiettivi davanti a un orrore come quello dell'olocausto?
Si può riuscire ad applicare le categorie della difesa, del diritto giudiziario, a perdersi in mille disquisizioni se il processo era legittimo o no, se le vittime possono o no ergersi a giudici, sulla differenza fra crimine contro l'umanità e crimine contro specifiche etnie ecc...?
Ho finito questi due capitoli con un senso di spossatezza, perché se in primo piano c'erano tutte queste argomentazioni, interessanti, piene di spunti di riflessione, pulite, linde, sullo sfondo c'erano i corpi di quegli uomini e donne assassinati nei campi, i cadaveri nudi e ammassati, gli occhi delle persone deportate nelle file interminabili che li conducevano al massacro.
E questa schizofrenia è insopportabile.
Forse però è l'unico modo per rimanere uomini davanti a tutto ciò, il continuare a pensare razionalmente?
Forse no, perché alla fine sembra che tutta la vicenda di Eichmann sia spiegabile così: un uomo che razionalmente portava avanti il suo lavoro, con dedizione e applicazione, raggiungendo un'efficienza ammirevole.
Senza più cuore, senza più coscienza, senza più niente di umano.
Elisa chiede se ognuno di noi potrebbe trasformarsi in un Eichmann... ed è proprio quello che secondo me ci domandiamo tutti e si sono domandati tutti, nei mille libri scritti sullo argomento, nelle mille discussioni fatte in mille ambiti diversi.
Tutto volto a cercare di rispondere alla domanda: "come è potuto accadere?"
"se è accaduto, riaccadrà di nuovo?" (e la risposta a questa domanda la sappiamo, perché è già riaccaduto, non in tali dimensioni, non con una tale organizzazione, ma ormai "pulizia etnica", "genocidio" sono argomenti ormai quotidiani)
Questa domanda: ma potrei farlo anch'io?
può però anche ribaltarsi completamente nel significato.
Mi spiego meglio: quest'estate ho letto "La ragazza dai fiori di vetro" la storia di Irena Slender, una ragazza polacca che durante l'occupazione nazista salvò dal ghetto di Varsavia migliaia di bambini ebrei, affidandoli a famiglie cattoliche e registrando i loro dati in elenchi che nascondeva correndo un pericolo immenso, non solo salvando la loro vita, ma anche la loro identità, nella speranza di potergliela ridare a fine guerra.
La Slender fu imprigionata, torturata, condannata a morte, salvata dai partigiani, costretta al silenzio e all'oblio, quasi a nascondersi, dopo la guerra durante il periodo dell'influenza sovietica sulla Polonia.
Di nuovo, leggendo questo libro, ho risentito risuonare in me questa domanda: "ma potrei farlo anch'io?"
Questa era una ragazza che studiava per diventare assistente sociale, una ragazza come tante, che fu aiutata nella sua impresa da tante persone come lei, famiglie che prendevano questi bambini e li trattavano come loro, correndo rischi inimmaginabili, non solo personalmente, ma anche per i loro figli.
E io, io sarei un Eichmann o una Slender?
Si può saggiare il proprio cuore, la propria coscienza nel tempo prospero della pace e della libertà?
Ho letto tanto, ma non ho risposta.
Francesca