Ondine
Logopedista nei sogni
Domani io e Roberto89 leggeremo Il delitto del conte Neville di Amélie Nothomb, se qualcuno vuole aggiungersi è benvenutissimo!
Intanto io mi incammino verso il castello del conte, vi aspetto lì!
Un conte che dà l’ultima festa nel giardino del suo castello prima di venderlo, perché i castelli sono lussi sfrenati che l’aristocrazia non può più permettersi. Una figlia adolescente e irrequieta, dall’infausto nome Sérieuse, incapace di provare alcunché, anestetizzata dalla sua età confusa e tetra. La predizione di una veggente all’uomo: “Durante il ricevimento lei ucciderà un invitato”. “Mi scusi?”. “Stia tranquillo. Andrà tutto a meraviglia”.
Un po’ tragedia, un po’ giallo, un po’ farsa, Il delitto del conte Neville, ventiquattresimo romanzo di Amélie Nothomb, descrive, con spietata ironia, il piccolo mondo della nobiltà belga, aggrappata a tradizioni senza tempo, isolata e avulsa da un paese altrimenti all’avanguardia.
Il racconto è un omaggio a Oscar Wilde e al suo Il delitto di Lord Arthur Savile ma è, soprattutto, un ritratto, a dire dell’autrice, “fedelissimo”, della famiglia Nothomb che tuttavia, nel leggerlo, racconta Amélie, invece di incupirsi in una rovinosa autocoscienza, “ha riso di gusto, domandandosi chi fossero quei bizzarri signori della storia”. La premonizione, di cui il conte non dubita neppure per un istante perché il destino è una strada segnata e ineluttabile, è spaventosa e funesta. No, non perché l’omicidio sia, in sé, una macchia scellerata (“Può accadere a chiunque, per caso o per mille altre ragioni plausibili”, riflette lui tra sé). L’inaccettabile aberrazione sta nell’uccidere un ospite, categoria eletta in seno alla specie umana: “L’assassinio premeditato di un invitato è la dimostrazione, incredibilmente volgare, che non si conosce l’arte di ricevere”, spiega Evrard, amico del protagonista e massimo esperto di storia dell’aristocrazia belga. “I miei genitori, quando ero piccola, accoglievano, a casa, fino a mille ospiti al mese. Mio padre, a loro e non a noi, offriva il meglio di sé. Deve essere allora che ho cominciato a coltivare il sogno dell’assassinio dell’invitato. Ed è per resistere a questa insopprimibile tentazione che oggi, a casa mia, non ricevo mai nessuno”, è la lettura autobiografica dell’autrice.
Intanto io mi incammino verso il castello del conte, vi aspetto lì!

Un conte che dà l’ultima festa nel giardino del suo castello prima di venderlo, perché i castelli sono lussi sfrenati che l’aristocrazia non può più permettersi. Una figlia adolescente e irrequieta, dall’infausto nome Sérieuse, incapace di provare alcunché, anestetizzata dalla sua età confusa e tetra. La predizione di una veggente all’uomo: “Durante il ricevimento lei ucciderà un invitato”. “Mi scusi?”. “Stia tranquillo. Andrà tutto a meraviglia”.
Un po’ tragedia, un po’ giallo, un po’ farsa, Il delitto del conte Neville, ventiquattresimo romanzo di Amélie Nothomb, descrive, con spietata ironia, il piccolo mondo della nobiltà belga, aggrappata a tradizioni senza tempo, isolata e avulsa da un paese altrimenti all’avanguardia.
Il racconto è un omaggio a Oscar Wilde e al suo Il delitto di Lord Arthur Savile ma è, soprattutto, un ritratto, a dire dell’autrice, “fedelissimo”, della famiglia Nothomb che tuttavia, nel leggerlo, racconta Amélie, invece di incupirsi in una rovinosa autocoscienza, “ha riso di gusto, domandandosi chi fossero quei bizzarri signori della storia”. La premonizione, di cui il conte non dubita neppure per un istante perché il destino è una strada segnata e ineluttabile, è spaventosa e funesta. No, non perché l’omicidio sia, in sé, una macchia scellerata (“Può accadere a chiunque, per caso o per mille altre ragioni plausibili”, riflette lui tra sé). L’inaccettabile aberrazione sta nell’uccidere un ospite, categoria eletta in seno alla specie umana: “L’assassinio premeditato di un invitato è la dimostrazione, incredibilmente volgare, che non si conosce l’arte di ricevere”, spiega Evrard, amico del protagonista e massimo esperto di storia dell’aristocrazia belga. “I miei genitori, quando ero piccola, accoglievano, a casa, fino a mille ospiti al mese. Mio padre, a loro e non a noi, offriva il meglio di sé. Deve essere allora che ho cominciato a coltivare il sogno dell’assassinio dell’invitato. Ed è per resistere a questa insopprimibile tentazione che oggi, a casa mia, non ricevo mai nessuno”, è la lettura autobiografica dell’autrice.