È un libro molto complesso, che si svolge su più livelli: tutto quanto espresso vale dal piccolo al grande, dal grande al piccolo, dalla nazione alla società, dalla società alla famiglia, dalla famiglia alla coppia e viceversa. Il primo pregio di questo libro è di non essere caduto nella trappola della disquisizione politica, filosofica, sociale e via dicendo. I concetti si elevano dalla storia, dai personaggi, dai loro pensieri e dalle loro esperienze, senza l’intervento esterno di un autore che pontifichi su ingiustizie, illegalità e rivendicazioni in generale. La realtà dell’Afghanistan vive attraverso i personaggi, che la esprimono e la rivelano al mondo. E ciascuno di loro rappresenta un aspetto di quella realtà, ma senza univocità, bensì in maniera controversa, incoerente, con le caratteristiche quasi incomprensibili che la realtà quasi sempre presenta. I temi toccati sono tanti:
1) Il tema della cultura, del suo potere, dei suoi limiti. Non so quanto fosse intenzionale da parte dell’autore la messa a confronto di due donne, una lasciata nella semi-ignoranza, l’altra studentessa almeno fino ai quindici anni. Forse molto intenzionale. Ma l’autore è riuscito a non farne marionette, perché ciascuna di loro ha una forte componente caratteriale che non la identifica necessariamente con la sua cultura o ignoranza. Solo modi diversi di reagire alla stessa esistenza: Laila risponde a tono al marito e prende le botte; Mariam prende le botte silenziosamente. Ma sarà proprio lei a prendere l’iniziativa di una soluzione finale. In fondo, che potere ha avuto la cultura di Laila contro il sopruso, la violenza, la sopraffazione? Sulla cultura si può costruire il futuro alla fine del libro, ma la cultura non aveva salvato né lei né il paese in passato. Laddove ha prevalso il terrore, solo altra violenza ha potuto limitare i danni. Un circolo vizioso dal quale la cultura può solo aiutare a non ricadere. Ma l’insegnamento che se ne trae, in fondo, è che la cultura è per i tiranni un pericolo da combattere perché mina il loro potere.
2) Il tema della poligamia, della quale si è tanto parlato anche in un’altra discussione. Una condizione valida solo laddove riunisca individui realmente e profondamente consenzienti. Nella realtà, una utopia, realizzabile, ma con grande fatica. Perché quando la poligamia, come quella di Rasheed, è imposta, è solo motivo di sofferenza per chi prova sentimenti umani di gelosia, di invidia, di umiliazione. Sentimenti reali, che esistono anche nelle realtà poligamiche di altre parti del mondo. Perché la natura umana è anche questa.
3) Il tema della violenza domestica. La sopraffazione dell’uomo sulla donna con la violenza psicologica e fisica, che non è una realtà “afghana”, bensì una realtà del mondo. Il sentimento di angoscia scatenato dal comportamento di Rasheed, dalle sue parole, dai suoi gesti, è un coltello rigirato nel cuore di molte donne occidentali, accomunate a Mariam e a Laila dalla paura. Ciò che distingue la realtà afghana dalle realtà “civilizzate” è che la violenza sulla donna, i metodi di “correzione” del suo comportamento, sono avallati dalla legge, dalla società, dalla tradizione. E per Rasheed ogni mezzo è buono per ottenere ciò che vuole, anche la menzogna, anche fare terra bruciata intorno alle sue vittime con il consenso dei talebani. Ma non dimentichiamo che non molto tempo fa in Italia era riconosciuto dalla legge il cosiddetto “delitto d’onore”, ed era socialmente inammissibile che una donna uscisse di casa non accompagnata o a capo scoperto. Siamo andati oltre, mentre in altre realtà (come nel piccolo di alcune unità famigliari occidentali) vige ancora la prepotenza dell’uomo sulla donna.
4) Il tema della guerra moderna, che non è più quella combattuta al fronte, ma quella che fa saltare militari e civili ovunque sia. Un giubbotto carico di esplosivo e la gente salta in aria in un bar. Il terrorismo delle Torri Gemelle, il terrore sul mondo intero, dove nessuno è più sicuro, dove chiunque può essere colpito ovunque si trovi.
5) Il tema dei figli: può una madre amare sempre e comunque i propri figli, a prescindere dal loro padre? Può amarli anche quando il padre violento ne fa una copia di se stesso? Anche Rasheed ha in sé le contraddizioni assurde del suo carattere, della sua cultura, della sua tradizione. Il figlio maschio è oggetto di ogni sua cura, laddove il resto della famiglia non fa neanche parte del genere umano. In contrasto con quel nucleo silenzioso e oppresso di Mariam, Laila e Aziza, unite da reale affetto, e non da possesso o da ridicolo orgoglio. È l’espressione singola delle contraddizioni generali della società, in cui un giudice dice che gli uomini sono diversi dalle donne, “lo hanno dimostrato i medici occidentali e la loro scienza”. L’occidente è il male se non quando fa comodo citarlo come punto di riferimento, gli si fa la guerra, ma se ne approva la scienza; le donne occidentali sono sgualdrine a capo scoperto, ma nel segreto della propria casa si guarda “Titanic”.
Hosseini ama il finale hollywoodiano, e lo ripropone qui, come già in “Il cacciatore di aquiloni”. Ma mi sembra che non spieghi adeguatamente il perché del sacrificio di Mariam, perché abbia dovuto necessariamente morire per permettere la salvezza di Laila. Non è chiaro il perché non abbia potuto partecipare anche lei alla fuga verso la salvezza. Così come mi sembra un po’ forzato il ritorno in Afghanistan, dove ancora oggi la vita non è affatto l’idillio presentato dall’autore, bensì una realtà ancora insicura in cui una madre così premurosa non avrebbe portato i propri figli.
A parte queste mie due riserve, il libro è molto bello, è molto “umano”, e non solo afghano. Una bella lettura.
(Un’ultima cosa la devo assolutamente dire: Hosseini, non si fanno giocare i bambini con le collanine di perle. Le possono ingoiare…)