In mezzo a due libri, uno bianco e uno nero, Rula Jebreal legge le frasi delle canzoni più belle della musica italiana, parole d’amore messe a confronto con le accuse più dure riservate alle donne vittime di violenza.
Un monologo da ascoltare assolutamente:
“Mia madre Nadia ha perso il suo ultimo treno quando avevo cinque anni, si è suicidata – dice con coraggio -. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, perché fu stuprata due volte: a 13 anni da un uomo e poi da un sistema che l’ha obbligata al silenzio. L’uomo che l’ha violentata aveva le chiavi di casa”.
“Sono cresciuta in un orfanotrofio – svela la giornalista -, noi bambine raccontavamo le nostre storie, favole tristi, di figlie sfortunate. Ci raccontavamo delle nostre madri, spesso stuprate, torturate e uccise”.
“Io amo le parole, ho imparato, venendo da un luogo di guerra, a credere alle parole per rendere il mondo un posto migliore – dice rivolta al pubblico, gli occhi che luccicano, ma la voce ferma -. Negli ultimi tre anni sono 3.150.000 donne che hanno subito violenza sul luogo di lavoro, negli ultimi due anni 1 donna ogni 15 minuti ha subito violenze, sei donne solo nell’ultima settimana. Spesso l’uomo non deve neanche bussare perché ha le chiavi di casa”.
“Parlo agli uomini: lasciateci essere quelle che siamo, madri, casalinghe, in carriera. Siate nostri complici indignatevi insieme a noi […] Domani guardate pure come eravamo vestite noi donne a Sanremo, ma che non si chieda più a una donna stuprata come era vestita. Non vogliamo più avere paura, essere vittima, essere una quota. Lo devo a mia madre, a tutte le madri, e anche a me stessa, alle nostre figlie, alle bambine: nessuno può permettersi di toglierci il diritto di addormentarci come in una favola”.